“Le voci perdute degli dèi” di Julian Jaynes più che parlare del mito scende in un ambito prevalentemente psicologico e lo fa in modo… antiscientifico. Un saggio che è da intendersi come tassello di un’opera ben più grande e composita, quella del pensiero umano, oltre che in una collana e in un’impresa editoriale che sono una coraggiosa scommessa culturale…
Quando cominciai a leggere Le voci perdute degli dèi, di Julian Jaynes (105 pagine, 14 euro), Edizioni Tlon, la prima cosa che mi colpì fu ovviamente il titolo. Ogni richiamo che sia attinente al mondo del mito, e di sue eventuali irradiazioni sull’orizzonte dell’antropologia o della psicologia, mi affascina oltremodo. Il titolo e anche la prima frase del libro, dove la nostra memoria viene descritta come un luogo incantato (nel senso, appunto – pensavo io – di quell’incanto che è tipico del Mytos, dove il potere del racconto primigenio è capace di cristallizzare il tempo dei mortali in simboli perenni e strutturanti).
Qualche rigo dopo Jaynes cominciava a mostrare la tomba ignuda di altri significati (su cui cominciavano ad infrangersi le mie aspettative), ben diversi dalle suggestioni che avevo superficialmente raccolto: la memoria veniva descritta, cioè, come uno spazio mentale generato da associazioni metaforiche della lingua che usiamo per descrivere gli atti mentali.
Due cose più una
Compresi due cose, e ne avvertii una terza.
Quel libro non mi avrebbe parlato del mito, non nel senso che avevo sperato; si scendeva già – forse troppo presto – all’interno di un ambito specificamente psicologico che era quello descritto dall’Autore; questo Autore avrebbe argomentato alcuni aspetti della psiche umana in una maniera totalmente rivoluzionaria che, come minimo, mi avrebbe lasciato qualche perplessità.
Osservate la necessità delle metafore!, esortava Jaynes, come Cristo avrebbe detto Guardate i gigli dei campi! Mi sembrava di sentirne la voce, di lui, psicologo e attore appassionato!
Non mi restava che continuare a leggere; dopotutto ero ancora all’inizio. Ma anche voi siete all’inizio, quindi, di tutto ciò che leggerete da qui in avanti, sappiate mettere da parte la precipitazione violenta della mia soggettività rispetto agli elementi oggettivi del libro in quanto tale e, soprattutto, rispetto alla nobile proposta editoriale che lo precede e di cui parlerò alla fine di questo articolo.
Un tempo così recente…
Dicevo, non mi restava che continuare a leggere. E non dovetti aspettare molto.
A pagina 10 si era già pienamente annodati alla questione principale, la tesi dell’Autore secondo il quale la memoria cosciente dell’essere umano cominciò a svilupparsi solo intorno al 1000 a.C., asserto che – immediatamente – mi somigliò alla possibilità che io, quarantatreenne, avessi cominciato a capire chi sono solo l’anno scorso… Insomma, non nascondo affatto l’imbarazzo di una perplessità prima solo intercettata come possibilità e poche righe dopo già galoppante verso lo sconcerto più manifesto. Tuttavia mi incuriosii ancora di più, desideroso di capire in che modo questa strana teoria sarebbe stata dimostrata.
Ma prima ebbi una risposta su cosa c’entrassero gli dèi!
In sostanza, per Jaynes, prima del 1000 a.C. gli uomini decidevano e ricordavano in modo incosciente, non consapevole. Avevano, per usare un’espressione tutta e solo sua, una mente bicamerale che, da una stanza all’altra del cervello, faceva arrivare le decisioni e i ricordi come se, appunto, fossero simili alle voci degli dèi.
Ora, intendiamoci. Non è la teoria in quanto tale che mi faceva problema (posso tranquillamente essere d’accordo sul fatto che la coscienza dell’uomo abbia avuto uno sviluppo, un’evoluzione; la coscienza dell’uomo è una realtà dinamica nella storia in generale e in quella particolare di ogni singolo essere umano) ma il fatto che venisse predicata a partire da un tempo così recente! Cioè, nel primo millennio a.C.
Una vita fluttuante e inconscia
Jaynes fa sembrare quel tempo così recente un eone lontanissimo, una vera e propria preistoria della coscienza quando, invece, ho come l’impressione che la coscienza dell’uomo fosse già abbastanza definita, e che gli esseri umani fossero già talmente consapevoli del loro sé da potersi permettere il lusso di tramandare miti che li avevano preceduti da millenni. Altro che ricordi e decisioni inconsapevoli!
E invece no! Jaynes sostiene che, fino a quel periodo (1000 anni prima di Cristo, cioè l’altro ieri), l’uomo non avesse coscienza degli eventi passati e delle possibilità future. Insomma, una vita fluttuante e inconscia che egli ritiene comprovata da fonti archeologiche a sostegno della sua tesi.
Intanto, ad un certo punto, Jaynes ci rassicura sul fatto che nel 1300 a.C. l’uomo disponesse già (almeno) di un sé corporeo, ovvero sapesse con una certa sicurezza di avere braccia e gambe. Ringraziamo l’Autore per averci sciolto da un dubbio atroce. E lo ringraziamo anche per aver aggiunto subito dopo che, più o meno nella stesso periodo, l’uomo cominciasse a disporre già di un sé autobiografico; in altre parole, per l’Autore non si dà la possibilità che, prima di quella data per lui così ancestrale, un essere umano potesse girarsi i pollici riflettendo su cosa avrebbe fatto nel prossimo week end. Ebbene sì: prima del 1300 a.C. pare che l’uomo non sapesse collocarsi nel tempo…
Posai il libro, scesi in edicola e andai a comprare Paperino, per ritornare ad un più scientifico senso della realtà. Poi ripresi la mia lettura. E fu una vera fortuna, perché poco dopo Jaynes cominciava finalmente a porre argomenti scientifici a sostegno della sua tesi (la nascita del sé autobiografico), collocandoli in Egitto, in Grecia e nel popolo ebraico.
Una sospensione atemporale
L’Autore riporta un esperimento condotto dal faraone Psammetico – episodio a sua volta riportato da Erodoto – per scoprire quale potesse essere il popolo più antico. Esperimento fallito. Jaynes commenta, forse (speriamo) ironicamente, che ciò è prova del fatto che degli esperimenti non ci si possa mai fidare. Di certe teorie sì, invece.
Ma il meglio arriva subito dopo quando, parlando del re Giosia (siamo circa nel VII secolo a.C.), Jaynes dice che questo re raccolse diverse parti che compongono l’Antico Testamento ebraico per mostrare qualcosa dalla Genesi fino a una promessa… Ora, a parte che quel rinvenimento a cui lui si riferisce è inerente a qualcosa di molto più specifico che non l’Antico Testamento ebraico (tutta la Tanakh? Incredibile!) preso nella sua interezza, ma forse qualcuno avrebbe dovuto ricordargli che la Genesi fu scritta dopo…
Ma andiamo avanti fino a quando, con l’Iliade impugnata a mo’ di prova archeo-antropologica, Jaynes sostiene con somma autorità scientifica che Achille (o qualunque suo contemporaneo) non fosse capace di pensare a concetti quali il passato e il futuro. Insomma, c’è sempre il fantasma di questa sospensione atemporale, questo limbo astorico in cui – a suo dire – l’uomo sembra essere vissuto fino a quando non si è accorto del suo sé autobiografico…
Ma dico, basta già l’esistenza dell’aoristo (già ampiamente attestato in un indeuropeo molto più antico degli stessi greci) a sconfessare tutto ciò. E il mito di Kronos che divora i suoi figli, ne vogliamo parlare?! Altro che mancata coscienza del tempo! Semmai è un problema tutto nostro quello di aver perso il senso della storia e del tempo, del passato e del futuro, ma non certo dei greci! Compresi quelli vissuti molto prima i fatti narrati nell’Iliade.
La consapevolezza della colpa
Dai, prima di concludere, vi racconto l’ultima. Voglio regalarvi un giorno speciale, pieno di sorprese! Sapevate che La colpa (come “emozione”) fa il suo ingresso nella storia umana intorno al 600 a.C.?
Oh, non sono parole mie! È Jaynes che lo dice. E sostiene tale asserto a partire dal fatto che la colpa è registrabile e documentabile in Grecia “solo” a partire da questo periodo, dove emerse come un problema inedito. Significa che, secondo lui, prima del 600 a.C. i greci non avevano alcuna coscienza di ciò che è giusto o sbagliato; non disponessero di critica morale; non fossero capaci di ragionare di etica. I greci. Certo.
Mi verrebbe quasi quasi di aggiungere che, però, il re Davide (vissuto almeno già quattro secoli prima), anche se non greco, scrisse una frase come: Pietà di me, o Dio, nel tuo amore. Nel tuo affetto cancella il mio peccato. […] La mia colpa mi sta sempre dinanzi (Sal 50). Ci mancherebbe, magari questo salmo lo si fa risalire a Davide, e magari invece è stato scritto in tempi più recenti. Ma è chiaro come certe tradizioni parlino della consapevolezza della colpa attestandola già in tempi molto remoti.
Forse…
Avrete capito che il libro mi ha preso!
Lo sconsiglio a pieno cuore, anzi, con piena coscienza (nel 2022 penso che ormai quest’ultima sia un dato umano incontrovertibile, almeno dal punto di vista fenomenico; sulle implicazioni morali lasciamo stare). Lo sconsiglio perché lo ritengo quanto di più ascientifico io abbia mai letto (a pagina 71 si celebra il tripudio dell’assurdo), e perché mi ha rovinato un paio di mattine a mare, sulla spiaggia, dove me l’ero portato per leggere qualcosa sulle voci degli dèi.
Magari l’avessi letto prima del 1300 a.C.! A quest’ora non avrei avuto coscienza del tempo perduto. Magari l’avessi letto prima del 600 a.C.! Non mi sentirei perseguitato dal rimorso.
A proposito di rimorso, di colpa… Le Erinni! Non è che per caso queste divinità talmente antiche da associarne la nascita al sangue/seme di Urano (siamo in piena era indeuropea!) sono state “pensate” solo dopo il 600? Chissà…
Sì, lo so. Forse non sono riuscito a recensire con il dovuto distacco. Ma la mia camera bilaterale è andata in crisi.
Un viaggio, uno strumento introspettivo
E comunque, occorre operare una distinzione doverosa tra il contenuto del testo, che può piacere o non piacere, com’è ovvio che ciò accada, e la sua collocazione editoriale che – nella fattispecie – rientra tra i Planetari Big, collana filosofica delle Edizioni Tlon, mirate a presentare un quadro filosofico che funzioni come una grande cartografia (e questa espressione mi è piaciuta moltissimo).
Il punto è questo, e in ciò sostengo appassionatamente lo slancio editoriale di persone come Maura Gancitano e Andrea Colamedici, che credono nel contributo che la Filosofia può dare a coloro che, in viaggio (e qui il viaggio è un processo esistenziale), hanno la necessità di orientarsi.
La cartografia del pensiero filosofico, che può attraversare testi come luoghi, dove si avverte l’aspra differenza tra la verde vallata e l’arido deserto di spiriti diversi, e diversamente capaci di esprimersi, diventa griglia conoscitiva ed elettiva che ha come fine NON quello di livellare i saperi e le dottrine, ma di metterle a disposizione di coloro che volessero – appunto – intraprendere un viaggio serio dentro sé stessi, dove la Filosofia cessa d’essere disciplina accademica e diviene spiritualità, strumento introspettivo per una visione capace di andare oltre il perimetro dell’ovvio.
Tassello di un’opera più composita
In questo senso, e soprattutto avendo dato uno sguardo d’insieme ad un catalogo nel quale sprofonderei ora stesso (scommettendomi certamente per altre lunghe e numerose giornate al mare in compagnia di questi libri), l’opera di Julian Jaynes è da intendersi come tassello di un’opera ben più grande e composita, che è quella del pensiero umano e che per la Tlon ha assunto la mirabile forma di questa Collana editoriale. Se il libro, come a me è successo, può non piacere nella sua singolarità, esso è da accostarsi agli altri nella visione globale di quel sistema di orientamento che, semplicemente, non può permettersi il lusso di tracciare sulle mappe dei naviganti le fumose possibilità di isole non trovate (per usare un’espressione presa in prestito dal più alto repertorio cantautorale). Allora non solo si comprende il perché di tale pubblicazione, ma se ne intravede lo spazio di espressione e lì, in questo preciso spazio, se ne ricava l’utilità prossima che è tutta nella ricchezza del confronto.
Quindi, in ultima istanza, la mia personale quotazione di Tlon, e della sua coraggiosa scommessa di spendersi in questo alto progetto di diffusione culturale, procede in direzione esattamente contraria a quanto sopra detto, specificamente, sul solo Autore di questo libro. Un editore si riconosce non solo da ciò che pubblica, ma da quel “perché” che precede ogni pubblicazione, e che anima gli scopi editoriali; sono le cause prime di ogni consegna della conoscenza: procedono dall’altezza di un fine e discendono fino a percorrere i rischiosi sentieri del pubblico gradimento, senza però mai arrestarsi, e arrivando fino alla consumazione dello scopo ultimo: affidare un sapere.
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Cercando sul web critiche serie alla teoria di Jaynes, su cui indago da anni, mi sono imbattuto in questo suo articolo, che però mi ha profondamente deluso: lei si limita, infatti, ad una banale ironia sui concetti chiave della teoria in questione (dimostrando, tra l’altro, di non averli nemmeno capiti). E’ perfettamente possibile che la teoria di Jaynes sia completamente falsa, ma di certo le argomentazioni esposte nel presente articolo non hanno nulla di vagamente paragonabile ad una confutazione “scientifica”: lei si limita, infatti, ad affermare che la visione di Jaynes contrasta con ciò che lei stesso considera intuizioni indiscutibili sulla natura della coscienza e della sua storia. Mi ricorda Gerolamo Saccheri il quale, cercando di dimostrare la deducibilità del quinto postulato di Euclide dai rimanenti, giunto suo malgrado a proposizioni di quella che in seguito verrà chiamata geometria iperbolica, crede di essere arrivato ad una reductio ad absurdum sostenendo semplicemente che tali proposizioni “ripugnano alla natura della retta”. Avrebbe fatto meglio a scrivere chiaramente che i dogmi della Chiesa Cattolica, a cui lei appartiene, sono incompatibili con l’impianto teorico dell’opera di Jaynes.
Gentile Sig. Giovanni, mi permetta di rivolgerle solo una domanda, a seguito del suo legittimo commento. Posto il taglio volutamente soggettivo e ironico (peraltro da me stesso denunciato all’interno della recensione) che forse non è stato colto nella sua intenzionalità; posti i diversi punti di vista che si possono avere o non avere su un dato autore; poste le controargomentazioni riportate (che certamente non sono campate in aria); e posta anche l’invincibile non esaustività che qualunque recensione porta con sé (rispetto, per esempio, ad uno studio specificamente scientifico), per il fatto stesso d’essere nient’altro che una recensione (un semplice punto di vista, dunque); Le chiedo: in quale parte di essa si evince con chiarezza che ciò che io scrivo “denunci” la mia appartenenza alla Chiesa Cattolica? Lei termina il Suo commento dicendo che avrei fatto bene a scrivere chiaramente che i dogmi della Chiesa Cattolica, a cui io appartengo (grazie per avermelo ricordato), sono incompatibili con l’impianto teorico dell’opera di Jaynes (onestamente, non mi sono neanche posto il problema). Lo dice come se la mia recensione fosse qualcosa di “confessionale” quando invece ciò non si evince da nessuna parte. Che io faccia parte della Chiesa Cattolica Lei lo sa perché ha letto il mio trafiletto biografico, non perché ciò risulti da ciò che ho scritto. Mi faccia capire… Se nel mio trafiletto biografico fosse apparso che ero un matematico, Lei mi avrebbe consigliato di scrivere chiaramente che non approvo Jeynes perché contrario ai teoremi di Euclide? Ho fatto questo esempio proprio perché – contrariamente a Lei – non conosco assolutamente Euclide. Ecco, Lei prenda per buono che, nello scrivere una recensione, io faccia finta di non conoscere affatto i dogmi della Chiesa Cattolica. Il che è proprio quello che faccio, a meno che – naturalmente – io non mi trovi a recensire un testo di teologia (ma questo su LuciaLibri non è ancora successo).
Per il resto, Le “confesso” (aridaje!) che mi aspettavo un commento come il Suo, è abbastanza normale che avvenga. Anzi, avviene poche volte in realtà e fa parte delle regole del gioco. Ciò che, invece, non mi aspettavo era essere “etichettato” per la mia appartenenza (che qui diventa emblema di qualunque possibile appartenenza). Detto ciò, e scherzi a parte, se vuole recensire un testo o un saggio di matematica la nostra Redazione sarà felice del Suo contributo.
Sempre che il Vaticano accetti! La benedico.
(Era una battuta, per sdrammatizzare, ma l’invito è vero😉).