“Lock-mind. Due diari della pandemia” è un volume firmato da due psicoanalisti Angelo Antonio Moroni e Pietro Roberto Goisis. Inizialmente pubblicato in inglese, piuttosto rivisto per l’edizione italiana. Goisis spiega come ha cambiato priorità e abitudini: “Dopo quello che ho vissuto, ho iniziato a cercare parole, incontri, scambi. Non ero fatto così! Per il futuro sono ottimista, ma anche preoccupato dal gap tra ragazzi e adulti e dall’esasperazione tra tifosi del vaccino e misure di sicurezza”
Perché un altro libro sul covid, anzi, dentro al covid, capace di riportare con la forza del diario ai terribili mesi di lockdown del 2020? Lock-mind. Due diari della pandemia (appena uscito per Enrico Damiani Editore), cerca di restituire una risposta attraverso le parole dei suoi due autori. Pietro Roberto Goisis e Angelo Antonio Moroni (nella foto) sono due psicoanalisti che, immergendosi l’uno da fuori, spettatore del terremoto sanitario che ha flagellato il mondo, l’altro da dentro, colpito dalla malattia e ricoverato, si interrogano sul senso di quanto accaduto e lo attualizzano, indagando i traumi che oggi serpeggiano e chiedono il conto. Sono parole di diario, emozioni e riflessioni anche professionali che si intrecciano con agganci all’immaginario di film e serie tv, con colonne sonore, stati d’animo, dubbi e constatazioni intime. Un universo in cui pensieri inediti di un mondo diventato improvvisamente sconosciuto si accompagnano alla scrittura come strumento di analisi e condivisione. Menti aperte, attente, a sventare il pericolo di un lock-mind che si intravede nelle pieghe sociali che il virus ancora cavalca. In attesa che il libro e i suoi protagonisti arrivino a Bookpride Milano domenica 6 marzo (ore 14.30, sala Alberto Moravia), Lucialibri ha avuto il piacere di fare qualche chiacchiera e considerazione con uno dei due autori, il dottor Goisis.
Inizio da una domanda che ci permette di mettere distanza tra il 2020 e il 2022, facendoci leggere meglio le cose. Come sta oggi e, dopo due anni dallo scontro con il virus, cosa le è rimasto dell’esperienza?
“Sto bene, i controlli regolari sono a posto e, salvo qualche piccolo segno polmonare – ma considerato quello che è successo è il minimo -, le cose sono rientrate. Questo per quanto riguarda la parte fisica. Per la parte psichica, al contrario di quanto accennavo nel libro, mi sono reso conto che le conseguenze sono più o meno passate. Il covid psichico è molto subdolo, se ne parla ancora poco: anche in conseguenza dell’evento traumatico, io ho registrato una reazione di agitazione e reattività che oggi non c’è più. Personalmente, posso dire che a distanza di due anni provo un misto di sensazioni: non è solo un brutto ricordo, ma anche un monito forse, legato ad aspetti di esperienza che si collocano positivamente grazie al loro potere trasformativo”.
Come si sono incastrati questi due diari, uno scritto “da fuori” e l’altro “da dentro”, entrambi alle prese con un enorme problema mondiale? Da cosa sono tenuti uniti?
“Per quanto riguarda me, l’unione è molto semplice ma profonda: a un certo punto io sono diventato una parte del diario di Angelo. Ma c’è anche il fatto che nel suo diario si parla molto di persone coinvolte nell’emergenza sanitaria: medici, operatori, pazienti, familiari, ed è per questo che ha senso ci sia anche il racconto di qualcuno che ha vissuto il covid”.
Vi conoscevate già prima?
“Non eravamo amici, ci conoscevamo solo come colleghi, ma siamo di due città diverse e di due età differenti. Era successo che casualmente Angelo avesse presentato un mio libro e avevamo sicuramente due interessi in comune, l’adolescenza e il cinema. Quando mi sono ammalato, una volta tornato a casa avevo un sacco di tempo libero e ho iniziato a sbirciare la pagina di Facebook dove Angelo aveva iniziato a scrivere dal dieci marzo, giorno dopo giorno, durante il lockdown. Ho immaginato che quello che stava scrivendo fosse potenzialmente un libro e gli ho mandato il diario che raccontava la mia esperienza. Infatti io compaio nella sua storia, prima come collega ignoto. Angelo è andato avanti con il lavoro e poi si è convinto l’idea fosse bella e mi ha chiesto la prefazione per proporre il libro a un editore. Il progetto non è andato in porto, ma è comparsa sul sito della International Psychoanalytical Association la richiesta di contributo per un’eventuale pubblicazione sul covid. Ho proposto ad Angelo di mettere insieme i due diari, ma il progetto non è passato perché non era sufficientemente psicoanalitico. Abbiamo iniziato così l’iter con la casa editrice Routledge, abbiamo trovato interlocutori attenti e abbiamo fatto il necessario passaggio con i referee, così che il libro è nato in un’edizione inglese. A questo punto, essendo uscito il mio precedente libro per Damiani, abbiamo pensato di proporlo a loro: se ne sono innamorati ed ecco qui Lock-mind“.
Si tratta dell’edizione inglese tradotta?
“No, è un libro molto diverso da quello inglese, è più nostro, più personalizzato. Abbiamo scelto, grazie al lavoro attento della casa editrice, di non usare i termini classici, infatti non c’è una conclusione ma il futuro, e poi a un certo punto nel testo entra mia moglie. Siamo molto affezionati a questa edizione, avendo potuto lavorarci nella nostra lingua”.
Non è una storia banale!
“Non lo è! Angelo e io non ci frequentiamo regolarmente, ma possiamo invece dire di essere due colleghi che, oggi, hanno anche un’amicizia”.
I libri ogni tanto creano percorsi inattesi…
“È verissimo. Anche la scrittura ci unisce!”
La scrittura è una vostra grande passione: in questo libro non è solo una cura, ma uno strumento per cercare di capire quello che stava succedendo, per metabolizzare, sia per chi era coinvolto direttamente, da malato, sia per chi assisteva impotente
“La scrittura è per me una forma di introspezione, ma anche una forma di comunicazione, nel duplice registro di comunicazione al mio interno e con l’esterno. Mi considero molto fortunato a essere riuscito a pubblicare qualche libro: si scrive per se stessi ma in qualche modo, secondo me, c’è sempre il pensiero di raggiungere qualcuno al quale far arrivare i propri pensieri. È un po’ di ambizione anche vanesia, la fantasia di avere qualcosa da dire, e che qualcuno lo ascolti”.
Ogni testo nasce con queste intenzioni, diceva Umberto Eco!
“Certamente. La scrittura ha anche una potenza terapeutica, viene impiegata in autoterapia e co-terapia: la si usa spingendo i pazienti scrivere e lavorare condividendo i testi. Da sempre nel mio lavoro diari di adolescenti, poesie e racconti che le persone scrivono sono entrati nella terapia, la scrittura ha una potenza terapeutica”.
A proposito di introspezione, i due diari sono due immersioni nella vostra autoriflessione, nel vostro lavorio mentale. Avete fatto lo sforzo di confrontarvi con una realtà di cui nessuno aveva controllo. Come per tutti, il covid è entrato nelle vostre – e nelle nostre – menti: che segni ha lasciato?
“È entrato nella mente anche perché non esisteva più la fantasia per poter separare la realtà esterna da quella interna: quella esterna è entrata prepotentemente perché era una realtà collettiva e sociale. Necessariamente è entrata dentro tutti noi, segnandoci nella quotidianità. Un evento così ti segna per forza nella mente, nei comportamenti, anche nei pensieri, nelle emozioni, nelle preoccupazioni, inquietudini, prospettive e incertezze. Penso che noi abbiamo principalmente due modi di stare male: uno è quando continuiamo a pensare al passato, che ci produce tristezze, l’altro quando pensiamo al futuro, che ci produce ansia. Durante il covid vivevamo, e un po’ ancora viviamo, con un’incertezza rispetto al futuro, quindi a livello sintomatologico il covid è entrato come un’inquietudine, uno stato ansioso che ha sconvolto le nostre evidentemente illusorie certezze”.
Questo evidentemente racconta molte cose: forse eravamo troppo rilassati su questa finta evidenza? Lei stesso racconta, nel suo diario, di un personale cambiamento di priorità e di scelte, di volersi sentire meno eroe. È ancora così o ha cambiato idea?
“Più o meno un anno fa mi hanno invitato a parlare a un evento dell’Ordine degli psicologi lombardi sul tema dell’età dell’incertezza. Tra gli ospiti c’era anche Natalia Aspesi e quando ci siamo visti per preparare l’incontro e ha saputo che mi ero ammalato, ha iniziato a dialogare praticamente solo con me. Mi ha chiesto cosa avessi cambiato, dopo la malattia. Le ho risposto che avevo cambiato orari di lavoro e che vedevo meno pazienti. “Ma così guadagna meno!” commentò lei. Questa dimensione è rimasta: ho ridotto le ore, tengo sempre un intervallo tra una seduta e l’altra che mi dà respiro, posso rilassarmi, arieggiare la stanza e la mente, e poi la sera finisco prima”.
Non si è pentito?
“No, non mi sono pentito. Sull’onda delle parole della Aspesi: serve anche vivere al meglio gli anni che uno ha a disposizione. Mi ero preso degli impegni, ho fatto delle promesse e avrei voluto anche migliorare la gestione del tempo e degli impegni”.
Insomma, più attenzione alla propria salute mentale, a se stessi.
“Sulla salute mentale noi “psico” siamo presuntuosi, ma anche quella fisica è importante: siamo più capaci di trascurarla, rimandando esami e controlli. Tornando alla sua domanda di prima: su molte cose non tornerò indietro, sono sicuro”.
Poi c’è l’altra direzione della scrittura, cioè gli altri: per lei è diventata vitale durante la malattia. Mentre viveva una situazione estrema, in ospedale cercava di intrattenere relazioni con il personale allo stremo, di parlare, di cercare contatti umani in un’epoca di distanziamento.
“Quando ripenso a me in quel periodo un po’ mi viene da ridere e un po’ mi sorprendo. Anche se non sembra – è uno degli aspetti buoni del post-covid – sono una persona piuttosto riservata, non ero troppo amante della vita sociale prima. Però, come dice una mia amica, da quando ho preso il covid non sto mai zitto! In effetti è come descrivo in Lock-mind: in questa vicenda ho iniziato a cercare parole, incontri, scambi. Non ero fatto così, davvero! In quel momento dovevo cercare anche in quel modo di stare vivo, di incuriosire o forse motivare chi mi curava. È avvenuta una cosa molto particolare, dopo ci ho potuto riflettere e forse il libro è servito proprio a questo, a dare un senso e una collocazione. Penso sia stato l’effetto di una condizione di paura e solitudine che stavo vivendo: l’ho capito quando mia moglie mi disse, entrato in ospedale “Non so quando ti rivedrò”. Nessuno poteva seguire le persone ricoverate. Lì, al pronto soccorso, ho avvertito un senso di sgomento, isolamento e solitudine ed è stato lì che ho iniziato a cercare di parlare, di incontrare le persone”.
Forse è anche per via del suo mestiere?
“Sicuramente, certo. In quella circostanza, però, probabilmente ho sentito che doveva a tutti i costi succedere qualcosa. A distanza di due anni il personale dell’ospedale avrà visto centinaia di persone, ma evidentemente anche il mio modo di fare ha lasciato il segno: penso sia stata una parte importante della cura”.
Parlando all’autore psicoanalista e non solo persona coinvolta in primo piano, in Lock-mind c’è tutta la riflessione, attraverso vari temi, sulla vostra professione stravolta da un mondo rivoluzionato. Avete capito qualcosa in più e vi siete interrogati su come cambierà il mondo?
“Sa che se ne parla ancora troppo poco? Forse per il fatto che è così recente e ha stravolto, anche per via dei collegamenti via web, molte nostre abitudini: qualcuno ha pensato che morisse la psicoanalisi, che perdesse la sua purezza. Non so se questa è una delle ragioni, ma c’è ancora molta poca riflessione su quello che è successo e sulle sue conseguenze. Invece ci sarebbe un bisogno urgente, e ce ne accorgiamo nelle chiacchiere come “Ma a te sono spuntate richieste?”, “Sì, certo, anche a me”. Se oggi devo mandare qualcuno da un collega per una terapia, faccio fatica a trovare posto perché la richiesta di aiuto è aumentata tantissimo. Di questo siamo consapevoli, così come dei dati spaventosi sui ragazzi che stanno male. Queste osservazioni sono evidenti, ma un pensiero generale su cosa abbia portato il covid non siamo ancora riusciti a farlo: Angelo e io ci illudiamo che Lock-mind possa essere un contributo anche in tal senso”.
Lock-mind significa mente chiusa: è forse il caso di aprirla e guardarsi intorno per capire?
“Potremmo scrivere un libro sulla scelta del titolo! Avevamo fatto un brainstorming e nessun titolo ci coinvolgeva. Poi è venuto fuori questo e ce ne siamo innamorati: è molto indovinato perché oltre al gioco con la parola lockdown ci parla anche di come abbiamo rischiato di imprigionare le nostre menti. Forse è così: il libro aveva anche un po’ l’ambizione di diventare un’apertura”.
Dopo tutto quel che è successo e il racconto che ne avete fatto, e dopo tanti confronti con familiari e amici, lei si è fatto un’idea di come sarà il futuro?
“No, ancora no. Ho un auspicio su come vorrei che fosse, casomai. Mi sono molto preoccupato all’inizio perché avvertivo, in studio, l’aumento del gap generazionale tra adulti e ragazzi. Era una sensazione, un timore, e mi sembra che ora sia incrementato. Quello che abbiamo domandato ai ragazzi per proteggere adulti e anziani è stata una richiesta molto alta: si sentono poco riconosciuti nei loro bisogni mentre noi abbiamo avuto l’illusione che per risolvere bastasse la loro capacità di recupero e resilienza. Non sono così ottimista, penso che ci sarà da fare un grande lavoro: i ragazzi che stanno male a 15 anni saranno adulti che stanno male. Avremo molto da fare per non perdere una generazione, lo dico esagerando un po’”.
E il bonus psicologi?
“Da un lato, il fatto che ci siano più richieste di aiuto potrebbe essere un elemento rassicurante perché vuol dire che sì, c’è il malessere, ma anche che le persone accettano di farsi curare, vuoi grazie al bonus, vuoi perché lo stigma degli psicologi si sta attenuando. È una buona cosa, ma bisogna poi che ci siano le risorse per tutti e che noi, personalmente, non ci dimentichiamo mai, nel momento in cui ricostruiamo le storie, dell’impatto che ha avuto questa vicenda sulle persone: è un impatto presente”.
Cosa la spaventa di quello che stiamo vivendo?
“Io sono un ottimista di fondo, questo mi aiuta molto e aiuta le persone con cui lavoro. Ma mi sono spaventato del gap tra ragazzi e adulti, anche se proprio pochi giorni fa un ragazzino mi diceva che vede la vita intorno rifiorire. Un’altra cosa che mi preoccupa, come tanti altri, è l’esasperazione tra tifosi del vaccino e misure di sicurezza: è una spaccatura già presente nel nostro tessuto sociale e ideologico e anche questo punto sarà un grosso impegno che dovremo cercare di affrontare tutti quanti”.