Virgo puer dedito al culto di Artemide, ma stretto fra le brame di più donne è Ippolito, protagonista dell’omonima tragedia di Euripide. Il gran rifiuto che fa ad Afrodite è l’inizio della fine. Somiglia alla Dafne narrata da Ovidio, entrambi combattono fino all’estremo sacrificio di se stessi per il trionfo dell’amore nel suo significato più nobile…
I giorni trascorrevano e io anteponevo sempre qualunque altra incombenza a questa recensione. Ho un talento unico nel procrastinare tutto ciò che non rientra nel campo delle mie ferree sicurezze, ovvero praticamente quasi ogni attività non abitudinaria. L’aggravante del caso specifico era ritrovarmi di fronte a uno dei maggiori poeti tragici della Grecia classica, ovvero Euripide con il suo Ippolito (79 pagine, 18 euro) edito da rueBallu all’interno della collana Jeunesse ottopiù. Questa edizione costituisce, fra l’altro, un’occasione meravigliosa per veder coniugate sapientemente parole immortali ad immagini straordinariamente belle ed efficacemente evocative, grazie alle eleganti illustrazioni di Emanuela Orciari, a cui vanno i miei complimenti più sinceri perché è davvero brava a traghettarci verso un orizzonte di onirica passione, sfiorata, accarezzata, ma impossibile da raggiungere. La Orciari cattura sapientemente l’essenza del desiderio, che diventa eterno poiché rimasto sospeso fra cielo e terra, fra uomini e dei, in una perenne rincorsa dell’oggetto amato, che si cristallizza in un anelito erotico, tanto più forte quanto rimane forza inespressa.
Nani sulle spalle dei giganti
Quest’espressione di ascendenza illuminista compendia efficacemente il mio stato d’animo nell’accostarmi alla figura di Euripide, che, oltre ad essere stato un prolifico e straordinario drammaturgo, godette dell’amicizia di Socrate, il padre della filosofia, che preferì una morte onorevole a una disonorevole fuga.
Credo di aver reso efficacemente la mia ansia da prestazione, che però ha un magnifico vantaggio, perché mi costringe a cercare strategie nuove, a percorrere sentieri fino a poco prima da me inesplorati.
La soluzione era sotto i miei occhi: Euripide non poteva essere sottoposto a giudizio, pena la sempiterna persecuzione da parte del suo fantasma, ridestatosi per l’occasione dopo millenni di silenzioso oblio.
Se non era riuscita a Nietzsche quest’impresa, quando riprovava l’abbandono da parte di Euripide dell’elemento dionisiaco all’interno dell’impianto drammaturgico, che speranze potevo avere mai io? L’atavico pragmatismo femminile mi suggeriva che quando il nemico non si può battere è saggia decisione quella di allearsi con lui. Mi dichiarai, quindi, sconfitta a tavolino da un avversario che, però, aveva vinto proprio con questa tragedia il primo premio alle Grandi Dionisie del 428 a.c., e che conversava con illustri personalità del calibro di Prodico e Anassagora come io chiacchiero di amenità varie con le mie colleghe in aula docenti. Con la riacquistata serenità di chi ha sventato apparizioni notturne di poeti furenti, potevo declinare una breve riflessione su questa affascinante tragedia.
Eros e Thanatos
Non credo che esista a questo mondo vendetta più terribile di quella di cui possa essere capace una donna rifiutata, respinta dall’oggetto del suo desiderio. Le regole non scritte dell’eterno gioco di seduzione fra i sessi assegnano alla donna il ruolo di burattinaia, che intreccia abilmente i fili invisibili delle relazioni, all’uomo non rimane che giocare d’astuzia e cercare di mostrarsi quantomeno nelle vesti di indomito playboy, che finge attitudini da esperto cacciatore, perfettamente conscio di essere lui in realtà la preda.
Fin dalle primissime pagine risulta chiaro che il povero Ippolito, figlio di Teseo e della regina delle Amazzoni, stretto fra le brame e gli intrighi di quattro donne fra cui due divinità quali Artemide e Afrodite, non avrà scampo, è destinato a soccombere, a pagare il fio di una scelta che appare quasi incomprensibile per un giovane del suo rango, ovvero preservare la sua verginità, dedicandosi anima e corpo al culto di Artemide, che lo ha eletto a compagno privilegiato delle sue battute di caccia. L’incauto figlio di Teseo, sentendosi al sicuro nella sua condizione di virgo puer grazie alla benevolenza che la dea della caccia gli concede, commette un errore che lo porterà a perire fra grandi sofferenze, perché osa farsi beffa con spavalderia delle lusinghe dell’amore di cui Afrodite è la fiera custode e dispensatrice. La dea nata dalla spuma del mare considera un oltraggio alla sua essenza divina il gran rifiuto che Ippolito con virile fermezza oppone ai piaceri della carne e mette in atto una rivalsa tipicamente femminile. Afrodite suscita in Fedra, matrigna dello sventurato Ippolito, una passione bruciante, irrefrenabile, verso il figliastro. Un fuoco inestinguibile avvampa lo spirito e le membra di questa donna, vittima del più terribile dei sortilegi: un amore non corrisposto. Giorno e notte la poveretta non trova pace e in preda a questo folle sentimento, che arde senza riuscire a consumarsi, medita vendetta.
Apollo e Dafne
È impossibile non accostare la tragedia di Ippolito al meraviglioso mito di Apollo e Dafne che, per molteplici ragioni, considero uno dei più affascinanti della mitologia greca classica. Come narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, Apollo colpito da una freccia di Cupido si innamora perdutamente della bella ninfa Dafne, che invece vuole preservare ad ogni costo la sua virginea purezza e preferirà cambiare forma per sempre, tramutandosi in una splendida pianta di alloro, piuttosto che cedere alla prepotenza del dio del sole. Apollo si cingerà il capo con una corona di alloro, rendendo un tacito omaggio alla coraggiosa ninfa che non era riuscito a sopraffare.
Afrodite, alla fine, renderà giustizia ad Ippolito, accusato di un crimine empio da Fedra che, vittima anch’essa della divinità capricciosa, non si dava pace del rifiuto del giovane figliastro, che in punto di morte verrà riabilitato dal padre, che verserà amare lacrime sul cadavere del figlio a cui si era rifiutato di credere.
Dafne ed Ippolito simboleggiano l’eterna lotta dell’innocente contro i soprusi, le angherie e le violenze di coloro che vigliaccamente esercitano la propria forza contro chi non ha la possibilità o la capacità di difendersi. Rappresentano però anche il riscatto, sofferto e doloroso, di chi combatte fino all’estremo sacrificio di se stesso affinché la giustizia, la bellezza pura ed autentica e l’amore nel suo significato più nobile, possano trionfare.
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