Area 22. Khadra e la kamikaze che non ti aspetti

Il dramma di un affermato chirurgo, naturalizzato di origini arabe, al centro de “L’attentato”, romanzo dell’algerino Yasmina Khadra. L’amata moglie è, sorprendentemente, un’attentatrice che si fa esplodere, mettendo a soqquadro l’esistenza e i pensieri del medico. Un dolore che finisce per fare riflettere sulla guerra israelo-palestinese: la chiave della pace è nella ricerca di radici comuni e nella necessità di «restituire la sua libertà al buon Dio» ostaggio della bigotteria dell’una e dell’altra parte. Nuova puntata di Area 22

Immaginate di avere un sogno e di investire tutto quello che siete e che avete per realizzarlo. Immaginate di non essere da soli a inseguirlo, ma pensate di avere accanto a voi la donna che più amate al mondo, per la cui felicità dareste la vita e che è disposta a condividerlo con voi, a impegnarsi nella sua realizzazione. Immaginate, a un certo punto della vostra vita, di esserci riusciti, di essere diventato un chirurgo affermato, stimato e benvoluto dai pazienti; immaginate di avere conquistato anche la stima e l’affetto del vostro superiore che non tiene in nessun conto il fatto che voi siate un naturalizzato di origini arabe e che per anni avete cercato di integrarvi tra gli israeliani huppé di Tel Aviv, provando a lasciarvi alle spalle un mondo al quale sentite di non appartenere. Certo, qualche collega non va ancora tanto per il sottile con voi, è diffidente e invidioso della vostra posizione, ma a voi non importa: la vostra bravura parla al posto vostro. Insomma, immaginate di essere felici e appagati. 

Perdere i punti di riferimento

Immaginate che, però, all’improvviso, senza avvisaglia alcuna, sul vostro mondo perfetto si abbatta con inusitata violenza il gesto omicida di un kamikaze. Voi siete abituati a riparare i corpi straziati dei feriti, ad alleviare il dolore dei familiari affranti di fronte alle morti dei loro cari: pensate che si tratti dell’ennesimo episodio di una guerra che continua a mandare al Creatore israeliani e palestinesi senza soluzione di continuità. A questo punto vi servirà un surplus di immaginazione perché, non lo sapete ancora, ma l’onda d’urto di quell’attentato in un ristorante, mefitica, orribile arriverà fino a casa vostra, dove siete andati a ritemprarvi dopo ore passate a salvare vite. A un certo punto il vostro telefono squillerà buttandovi giù dal letto e strappandovi al sonno del giusto; costretti a ritornare in ospedale scoprirete che la kamikaze che si è fatta saltare in aria è vostra moglie, la vostra ragione di vita. Da questo momento in poi, tutto ciò che avete costruito con tanta caparbietà si sgretolerà come una statua di sabbia percossa dai venti e vi ritroverete a perdere tutti i punti di riferimento su cui avete costruito fino ad ora la vostra esistenza. 

La non lineare ricerca della verità

Yasmina Khadra, scrittore algerino residente da anni in Francia, con il suo L’attentato, pubblicato nel 2005 da Julliard (da quell’edizione sono tradotti i virgolettati dall’originale francese, ndr) e qualche anno fa da Sellerio dopo una prima edizione Mondadori, ci regala un romanzo circolare denso di interrogativi, in cui la ricerca della verità non è affatto lineare e in cui ciascuno difende la propria, di verità, con tutti i mezzi a sua disposizione, anche i più terribili. Lo scrittore non entra nel merito della questione palestinese da un punto di vista politico o sociologico, no. Il suo indagare ruota intorno al subbuglio esistenziale delle vite che da quel conflitto geopolitico sono ineluttabilmente risucchiate. Khadra non si schiera né con l’una né con l’altra istanza; egli lascia le ragioni del conflitto alle analisi degli specialisti. Quel che gli preme, e che è anche l’oggetto della sua trilogia di cui L’attentato fa parte, insieme a Le rondini di Kabul e Le sirene di Bagdad, è indagare le motivazioni che stanno dietro agli atti estremi dei terroristi e alle dinamiche che guidano chi sceglie la morte credendo di onorare la vita.

L’odio come un veleno

È proprio attraverso il dramma vissuto dal chirurgo Amine Jafaari, che lo scrittore scandaglia i passaggi che portano una persona come Sihem, moglie del protagonista, apparentemente integrata, soddisfatta della sua vita dorata, a farsi saltare in aria per una causa e a trascinare nel suo delirio tanti innocenti. La sorte di Amine cambia in un attimo ed egli è costretto a fare i conti con l’enormità dell’inganno nel quale ha vissuto inconsapevolmente. Seguiamo Amine nel suo drammatico dibattersi tra l’angoscia, l’incredulità, la negazione della più limpida delle evidenze, il tarlo del dubbio, la rabbia, l’odio. Odio che si fa strada dentro di lui come un veleno che lo avviluppa facendogli perdere ogni lucidità, e lo rende incapace di vedere oltre il proprio dolore e il proprio calpestato orgoglio. Lo seguiamo ancora nel suo folle e quasi suicida peregrinare alla ricerca della verità, delle risposte che non ha, forte della sua razionalità che non accetta il martirio come mezzo per l’affermazione di una Causa, lui che i corpi è abituato a tenerli in vita e non a considerarli come strumenti di liberazione. Poiché infatti «la più grande, la più giusta, la più nobile delle Cause sulla terra è il diritto alla vita», come afferma l’ebreo Zeev con il quale Amine compie un pezzo di cammino verso la pacificazione con il suo passato e il suo presente.

L’unico credo da onorare

Come venire fuori da uno scandalo come quello della guerra israelo-palestinese? Tutto intorno ai personaggi è orrore: l’indifferenza di Tel Aviv che scavalca i cadaveri pur di mantenere una parvenza di normalità, le città dei territori palestinesi ormai sventrate e scippate della loro antica vivacità e trasformate in avamposti di morte dai continui attacchi inflitti e subiti. Le cose, come le persone, portano ferite, squarci, che non hanno il tempo di rimarginarsi: «Il regno dell’assurdo ha devastato perfino l’allegria dei bambini». In tutto questo dolore, Khadra sembra indicare una via nel dialogo tra Amine e Zeev: «ogni ebreo di Palestina è un po’ arabo e nessun arabo d’Israele può pretendere di non essere un po’ ebreo»; nella ricerca di radici comuni e nella necessità di «restituire la sua libertà al buon Dio» ostaggio della bigotteria dell’una e dell’altra parte e alibi per camuffare ogni sorta di scempio della vita umana, starebbe la chiave della pace tra i due popoli. Lungi dal voler fornire soluzioni a buon mercato, che non sono la ragione della letteratura, da ricercarsi semmai nel sommovimento degli animi rispetto a un tragico reale che viene raccontato, Khadra si pone con il suo romanzo oltre lo scontro affidandosi al suo protagonista: Amine continua a scegliere l’unico credo che si sente di onorare, l’unica lotta che vale combattere e cioè la sua professione, quella del chirurgo «che consiste nel reinventare la vita là dove la morte ha scelto di operare».

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