Nikolai Prestia racconta come è nato il suo esordio di successo, l’autobiografico “Dasvidania”: “Come ho debuttato? Sono stato fortunato e mi sono fatto trovare pronto. Scrivendo ho perdonato gli altri e me stesso. Un nuovo libro? Ci sto lavorando”
Poco più che trentenne, Nikolai Prestia è uno dei debuttanti più interessanti dell’ultima stagione letteraria, con Dasvidania, pubblicato da Marsilio (ne abbiamo scritto qui). Nativo di Nizhny Novgorod, in Russia, da quando aveva otto anni è stato adottato, assieme alla sorella, da una coppia siciliana. Si è stabilito a Roma, dopo aver completato gli studi universitari a Siena. Frattanto ha pubblicato un romanzo di formazione che è anche un memoir della propria infanzia. La sua è una storia commovente perché autentica, in cui l’amicizia e la voglia di non mollare mai primeggiano su tutto. Oltre le vicissitudini in un istituto, in un’epoca immediatamente posteriore alla dissoluzione dell’impero sovietico, il piccolo protagonista fa i conti con episodi di violenza domestica, alcolismo e droga. Però il coraggio e la speranza lo sorreggono fino in fondo… Per saperne di più, ci siamo rivolti direttamente a lui.
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Nikolai, il tuo è un romanzo autobiografico in cui racconti la tua infanzia difficile e l’adozione che ti ha portato in Italia. Quanto è stato doloroso rovistare dentro di te e mettere per iscritto le tue sofferenze più intime?
«Sicuramente è stato un lavoro intenso. Scrivendo mi sono reso conto di avere molti ricordi nascosti. All’improvviso, partendo da alcune immagini, ne subentravano automaticamente altre. Ma non è stato doloroso il riviverle attraverso la memoria, quanto invece rendermi conto di averle vissute. Un dolore, come dire, retroattivo».
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Possiamo dire che scrivere è stato lenitivo, cioè ti ha aiutato a far pace con il tuo passato?
«Esattamente. Scrivere è stato un modo per rivedere il passato, fissarlo, e perdonare tutto quanto successo. Sia nei confronti di altri, che nei miei: credo ci sia sempre, seppur da bambini, un minimo di colpa».
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In molti leggendo il tuo romanzo, si sono chiesti che fine hanno fatto gli altri ragazzini che erano in istituto con te, Sergej, Mishka, Sasha, Ivan…
«Non ho avuto più alcun contatto con nessuna persona della Russia di allora. Mi piace pensare che sia andata bene anche ai miei compagni di stanza, e per tale motivo non mi dispero nel non avere alcune notizie loro. Irrazionalmente preferisco sperare che stiano vivendo una bella vita, sapere l’opposto mi devasterebbe».
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Cosa simboleggia la mela divisa a metà raffigurata in copertina? E perché Dasvidania?
«La mela tagliata a metà simboleggia tutto il dolore che passa tra l’ultima mela marcia nel sacchetto di Irina e l’ultima mela verde che la stessa Irina mette nella mano di Kola. Per il titolo, ho scelto Dasvidania perché la vita di Kola, il protagonista del libro, non è altro che un alternarsi di incontri e addii. Ogni Dasvidania presente nel libro ha però ogni volta un significato differente».
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Sei un autore esordiente e sappiamo quanto sia difficile in Italia ricevere l’attenzione degli editori: tu come arrivi alla pubblicazione?
«Io sono stato molto fortunato. Facevo il cameriere in un locale di Siena e ho conosciuto una regista che ha letto quanto scritto fino a quel momento. Ha creduto in me, e sono riuscito ad entrare in contatto con Chiara Valerio, che tra le infinite cose che fa, è anche la responsabile della narrativa italiana per la Marsilio: si è dimostrata entusiasta fin da subito. Mi reputo molto fortunato, ma nella fortuna sono stato in grado di farmi trovare pronto».
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A quali autori e a quali opere ti sei ispirato nella stesura del tuo libro?
«Sicuramente i miei riferimenti letterari sono, tra gli altri, Dostoevskij, Gogol, Pavese, Baudelaire e Mencarelli. Ma non so quanto mi sia ispirato a loro: credo sia un qualcosa di inconscio, certamente credo che la visione malinconica, nostalgica e l’analisi dei fatti umani derivino dalle loro letture».
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Se già al lavoro per un secondo libro: vuoi anticiparci qualcosa?
«Un mio amico, che è nel mondo dello spettacolo, mi ha sempre detto: “Non dire mai nulla del lavoro che stai facendo, finché non è concluso. Si perde la magia, si crea l’aspettativa”. Posso dire però che sto lavorando al secondo romanzo».