Curato da Paolo Nori, “Repertorio dei matti della letteratura russa”, è un’ampia selezione – 848 brani da 177 opere – di “tipi” grotteschi e sopra le righe, battute argute e motti di spirito. Ennesima conferma dell’unicità e dell’eccezionalità della letteratura russa, tra comicità, leggerezza e universalità. E poi c’è un video come bonus track…
Volume del tutto sui generis, come del tutto sui generis e bravissimo scrittore (Paolo Nori) è il suo curatore, è Repertorio dei matti della letteratura russa – Autori, personaggi e storie (317 pagine, 16,90 euro), edito da Salani, titolo del libro mutuato da quel Repertorio dei pazzi della città di Palermo (pubblicato nel 1993 per le edizioni della Battaglia, poi passato attraverso i cataloghi di Garzanti e Mondadori, adesso disponibile in quello Sellerio) di Roberto Alajmo. Vera e propria enciclopedia della letteratura russa e opera collettiva il libro nasce, come specificato in appendice, da due seminari svoltisi fra il 2019 e il 2020 tra Milano e Bologna ai quali hanno partecipato 53 persone (tutte rigorosamente citate) e organizzato con il patrocinio di To soréla entertainment come ancora oggi si legge sul sito del curatore (www.paolonori.it). Tutte queste persone si sono prese l’impegno di leggere ciascuno almeno quattro romanzi, o saggi o biografie che parlano di letterati o letteratura russa, altrettanto citati nella bibliografia in calce al volume.
Gli 848 brani riportati sono come cioccolatini, uno tira l’altro. Ne leggi uno e viene voglia di proseguire con un altro e poi un altro ancora, e così via fino alla fine immergendosi in vario modo nelle 177 opere citate all’interno del volume, ogni singola opera dalla quale è tratto il brano è richiamata con un numero che rimanda alla bibliografia finale.
Massime morali, anche esilaranti
Sono brani liberamente ma allo stesso tempo fedelmente rivisitati, si immagina con la supervisione della scintillante mente del curatore del volume. In alcuni casi appaiono quasi irriconoscibili ma sempre in linea con il loro comune contenuto grottesco, talora assurdo e sempre esilarante, e che diventano in alcuni casi delle vere e proprie massime morali come nel caso di colui che aveva letto sul giornale che la vita è bella ma era sicuro che prima o poi ci sarebbe stata una smentita (Nikolaj Erdman-Il suicida) o ancora più amare sentenze in occasione di un brindisi come quella presa da La Corsa del tempo di Anna Achmatova: “Bevo alla casa distrutta e alla mia vita brutta”.
La maggior parte degli stralci citati inizia con: “uno che diceva” o “uno era” in ossequio al tono colloquiale che contraddistingue e da sempre fa amare la narrativa di Nori che trova appoggio nel parlato, come se ci stesse raccontando delle storie un amico al bar sotto casa o un compagno di studi alla mensa universitaria.
Uno che faceva l’usciere e che aveva detto a uno che voleva pulirsi un po’ dal fango che non si poteva perché la spazzola si sarebbe rovinata, e la spazzola era del demanio (Fëdor Dostoevskij – Povera gente).
Una era segretaria che lavorava nell’ufficio del direttore di una rivista letteraria e i cui occhi erano diventati strabici a forza di mentire (Isaak Babel – Racconti di Odessa).
Uno che hai tempi della Rivoluzione, a una festa di letterati per far colpo su una poetessa le chiede se volesse assistere a una fucilazione aggiungendo: “Posso organizzare tutto in un minuto” (Vladislav Chodasevič – Necropoli).
Lo zampino del curatore
L’unicità ed eccezionalità della Russia e della sua letteratura, comicità, leggerezza e universalità, caustica ironia e gusto dello Skaz, che non è un termine volgare ma un preciso tipo di narrazione tipico della sua letteratura per il quale in caso di bisogno si rimanda alla voce Wikipedia, e spiritualità, sono ben espressi in questo spasso di volume che è anche un compendio della “norità” che tanto i suoi lettori hanno imparato ad apprezzare nel tempo. Leggendo di questi matti, si auspica un libro di avvicinamento per molti alla sconfinata bellezza e assoluta particolarità della letteratura russa (anche quella meno nota), si capisce come per lo scrittore parmense quella dei russi sia stata da sempre la stampella del suo mestiere di scrittore tanto è vero che Nori è anche un grande traduttore e divulgatore, avendo portato da noi autori altrimenti destinati a rimanere sconosciuti come il Daniil Charms di Disastri e Casi (Adelphi) o il più volte citato, amato e tradotto da Nori, per Quodlibet (2014), Venedikt Erofeev di Mosca-Petuski-poema ferroviario nel quale può capitare che l’autore stesso suggerisca al lettore, se non voglia calpestare l’universo invano, di assaggiare un cocktail chiamato “La lacrima della giovane comunista”, qualcosa che ha del miracoloso e che chiunque lo beva viene trasformato in un essere così “spirituale” che chiunque lo avvicini gli possa sputare in faccia per mezz’ora filata senza che quello abbia niente da ridire, o per tornare al Daniil Charms di Disastri sapere che lo stesso autore si metteva nudo davanti alla finestra o scriveva manifesti così grandi che affiggeva alle pareti della sua camera in modo che potessero essere visti dalla strada dove scriveva cose come: “Noi non siamo delle torte, delle torte noi non siamo”, mentre in Casi lo stesso afferma che bisognerebbe scrivere versi tali che gettando una poesia contro una finestra questa si dovrebbe rompere o dove è capace di raccontare cose più cruente e orribili come l’uomo che con due inquilini che non gli stavano particolarmente simpatici entrerà nella loro camera con un topo in mano tenendolo con la coda e dicendo loro: “Permettete che lo frigga” avviandosi verso il fornello, o raccontare ancora di una donna che cade dalla finestra e le altre che si affacciano per vedere cosa sia accaduto cadono a loro volta, una dopo l’altra.
Tra la Russia e certe opere di Nori
Le citazioni e brani tratti dalle 177 opere di autori russi sono compendiate e intercalate all’interno del volume da cose direttamente “noriane” (raccolte appunto alla voce 177) come nel caso della parola italiana nisba che, afferma Nori, secondo qualcuno deriva dal russo “isba”, le tipiche case russe e significherebbe “neanche una casa”, la stessa persona (si suppone) ci dice ancora Nori, che afferma che per avere un po’ più di presa sulla realtà dopo aver letto Delitto e castigo si fa prendere dalla voglia di ammazzare qualcuno, che c’è chi è convinto che Guerra e Pace vada letto tutto di un fiato perché dentro un romanzo del genere uno ci si deve immergere completamente, solo che ogni tanto uno si deve interrompere per lavorare o per naturali bisogni biologici o fisiologici, come pare essere accaduto a quel tizio che tutte le volte riesce ad arrivare al massimo a pagina 329 e dopo deve interrompersi e ricominciare da capo. È sempre Nori a riferire di un lettore lamentoso che aveva scritto una recensione su Guerra e pace acquistata su Amazon e invece di recensire il libro si era lagnato della qualità della carta secondo lui scarsa, della rilegatura che lo aveva “lasciato a piedi”, mentre il prezzo (a suo dire) non era malvagio. Intermezzi “noriani” inediti come quello su colei che legge molti libri di autori russi ma per l’imbarazzo di poter citare i loro nomi in modo sbagliato non li menziona mai, oppure stralci tratti da sue (di Nori) precedenti opere come quelli presi da Pancetta (Feltrinelli 2004): “Soffrirò, morirò, ma intanto, sole, vento vino, trallallà” e dalla stessa il citato episodio di uno che nel 1912 aveva voluto dimostrare che Kant volendo spiegare i limiti dell’intelletto umano, aveva dimostrato i limiti dell’intelletto tedesco, si era semplicemente confuso.
Sia grandi autori che misconosciuti
Sono variamente rappresentate opere di piccoli o semplicemente poco conosciuti autori e grandi che hanno fatto la storia della letteratura universale. Vale la pena di citarne alcuni di entrambe le categorie. Fra i primi esempio colui che finge di fare un massaggio al fratello per potergli torcere il braccio oppure la donna obesa che mentre è nella sala di attesa di un famoso sarto baciava l’immagine di San Nicola Taumaturgo dicendo “Fa che mi stia bene” entrambi in Incontri con Anna Achmatova di Lidija Cuckovskaja.
“Una donna conobbe un vecchio cameriere e andarono a vivere insieme. La donna pensò di suicidarsi con un colpo di pistola meditando in punto di morte di dire alla polizia che era stato il cameriere a ucciderla. Pensava che e i delitti più esaltanti fossero quelli ispirati da una menzogna, non solo ammazzare e ammazzarsi ma prendere in giro il mondo intero” (Nina Berberova-Il lacchè e la puttana).
C’è anche l’immagine di un prete che con i suoi esorcismi sconfigge l’alcolismo, così in molti si rivolgono alla sua chiesa mentre il sagrato si riempie di turaccioli visto che tutti prima dell’esorcismo vogliono farsi un ultimo goccio (Boris Pil’njak-L’anno nudo)
La firma di Dovlatov
Fra questi autori tutti da scoprire c’è Sergej Dovlatov, citato più volte per varie opere, fra le quali i Taccuini dai quali apprenderemo che Aleksandr Blok scriverà nel suo diario che “l’ubriacatura del 27 gennaio è – spero – l’ultima” ma già il giorno dopo si dovette correggere scrivendo. “oh no: del 28 gennaio!”.
Battute argute e motti di spirito come la metafora sempre all’interno dei Taccuini ove si dice che l’ironia è una metafora discendente e per chiarire aveva fatto un esempio: “Le sue pupille sono stelle era una metafora ascendente” mentre “le sue pupille sono padelle” era una metafora discendente”. O ancora Dovlatov in Il Libro invisibile (Sellerio 2016) nel quale uno storico rimprovera un poeta dicendogli che loro, gli storici, di loro, dei poeti cioè scrivono, mai che ci fosse invece un poeta che scrive degli storici, e nello stesso volume citato lasciandosi andare a una semplice considerazione su ciò che è un buon giornalista: “uno che si era venduto una volta sola” e ancora parlando di uno che pensava che la censura, se ti lasciava in vita, non era chissà poi quale tormento, visto che neppure Gesù Cristo era stato pubblicato mentre in La valigia rivendica la convinzione che un intellettuale russo se non era stato in galera non valesse un granché.
Alcuni brani hanno la forza dirompente di un ditirambo, altri sono più argomentati, in tutti casi aprono spazi di riflessione che sfociano quasi sempre in un riso catartico e liberatorio o in immagini a loro modo poetiche come quelle del giovane che viveva a Mosca e che si era dato appuntamento tutte le notti con un tiglio in fondo al suo giardino e quando lo abbracciava gli pareva di abbracciare tutta la natura e il cuore gli struggeva, fino a che conobbe una ragazza e smise di andare agli appuntamenti con il tiglio (Rudin – Turgenev)
Quei grandi paradossali
Il gusto del paradosso è ricorrente, come nel breve brano di Guerra e Pace ove si narra di un uomo che sebbene i dottori lo curassero, gli estraessero il sangue e gli dessero da inghiottire delle medicine, ciononostante era guarito lo stesso, o stralci presi da Anna Karenina ove un uomo che torna da teatro con una grossa pera in mano per la moglie, che tradiva con la governante francese. Già, perché anche i grandi della letteratura russa sono presenti in questa grande ed esilarante carrellata. Fra di loro non possono non spiccare due dei maestri del comico e dello Skaz come Nikolaj Gogol e Michail Bulgakov. Dalle Uova fatali del secondo si narra di un uomo sposato che non usciva mai né andava a teatro ma se ne stava sempre nel suo gabinetto scientifico a fare esperimenti con le rane, motivo per il quale la moglie lo abbandonò con un tenore dell’Opera, mentre dalla sua opera più nota, Il Maestro e Margherita sono tratti alcuni brani che non possono che provocare il più spontaneo riso come nel caso dell’uomo invisibile, ove costui occupato in un ufficio si muoveva dentro un vestito vuoto, con tanto di cravatta e penna che usciva dal taschino, scrivendo forsennatamente e rispondendo al bisogno anche al telefono, oppure colui che ingannava i clienti servendo storione etichettato di seconda freschezza quando in realtà tutti sapevano che di freschezza ce ne era una sola, la prima e anche l’ultima e se lo storione è di seconda freschezza significa che è marcio, fino a illuminanti interrogativi: “E l’affitto chi lo paga? Puskin?” oppure “La lampada sulle scale mica l’avrà svitata Puskin?” o ancora “e la nafta è Puskin che la paga?”. Insomma, una divertentissima sfilata di esseri strampalati come colui che se ne va in giro per Mosca con delle mutande lunghe a strisce e la camicia strappata a inseguire un gatto. E come non citare dall’opera immortale di Bulgakov l’episodio di Korov’ev e Azzarello, gli aiutanti del diavolo, che si recano all’unione degli scrittori di Mosca chiedendo che fossero fatti entrare e sentendosi domandare se loro fossero scrittori. Alla richiesta delle tessere da parte della donna all’ingresso uno dei due risponde che Dostoevskij non aveva certo bisogno della tessera per entrare, alla cui cosa la donna obietta che lui non fosse Dostoevskij. L’aiutante del diavolo ribatte chiedendo come lei faccia a saperlo. La donna risponde che Dostoevskij è morto e a quel punto si alza la protesta dell’aiutante del diavolo: “Dostoevskij è immortale” (come Bulgakov del resto). Sempre dall’autore di Il Maestro e Margherita proviene la fulminante considerazione sui portieri: “Uno pensava che i portieri fossero quanto di peggio ci fosse al mondo, una razza assolutamente odiosa, più repellente dei gatti: era convinto che i portieri fossero scorticatori gallonati” (Michail Bulgakov – Cuore di cane).
Da Gogol…
Non potevano mancare citazioni da quel maestro riconosciuto del comico che è Gogol. Nei suoi Racconti di Pietroburgo si passa dalle varie considerazioni sui cani che sono ritenuti molto più intelligenti dell’uomo, che possono anche parlare e che se non lo fanno è solo per testardaggine a uno che legge sul giornale delle vicende sul trono spagnolo e che rimane colpito dal fatto che questo potesse rimanere vacante tanto da non riuscire a fare niente per tutto il giorno. Dal racconto più noto dei racconti pietroburghesi (Il naso) viene invece il brano citato ove si lamenta della terra che si sarebbe posata sulla luna, una cosa che crea angoscia, dovuta al fatto che la luna di solito la facevano malissimo perché la faceva a Amburgo un bottaio zoppo che vi aveva messo una fune incatramata e una parte di olio vegetale così che sulla terra vi era una puzza orribile, tanto che si doveva tapparsi il naso. L’effetto di tutto ciò era che la luna era così molle che non ci potevano abitare uomini ma solo i nasi, per questo nessuno aveva il naso, perché erano tutti sulla luna o come nel caso di un bottegaio tedesco che aveva deciso di farselo tagliare in quanto questo gli costava un patrimonio essendo un fiutatore compulsivo di tabacco, ne fiutava tre libbre al mese che a conti fatti gli costavano venti rubli all’anno. Viene invece dalle Anime morte il caso di una padrona di casa che alloggia un inquilino e gli chiede se vuole che qualcuno gli grattasse i calcagni prima di addormentarsi visto che lo faceva sempre con suo marito, il quale non c’era verso che si addormentasse se non glieli grattava.
… all’insospettato Dostoevskij
Ma ci sono anche grandissimi e insospettati quali Dostoevskij in questa carrellata di comicità. Dall’autore dei Fratelli Karamazov e Delitto e Castigo (tra i tanti) si passa dalla rivisitazione di celebri brani dalle sue Memorie del sottosuolo nel quale si dice che se tutti i nostri desideri più stravaganti fossero esauditi staremo molto peggio alle parossistiche manifestazioni di affetto di colui che dava sempre ragione ai propri aggressori parteggiando per le altrui ragioni, arrivando addirittura a tifare sinceramente per il suo rivale in amore al quale arriva a volere sinceramente bene (L’idiota). Sempre dalle Memorie del sottosuolo veniamo a sapere che c’è una persona che sospetta di stare molto antipatico a uno suo conoscente andandolo comunque a trovare perché non era del tutto sicuro e si evince che ce ne era ancora un’altra che quando si trovava in una positiva disposizione d’animo si sentiva di dover abbracciare tutta l’umanità, solo che l’unico rapporto umano che aveva era con il suo capoufficio. Il problema era che il suo capoufficio riceveva visite solo il martedì, di conseguenza per essere felice e avere l’urgenza di abbracciare qualcuno doveva aspettare sempre il martedì. In un brano dostoevskiano del quale non c’è bisogno di citare la provenienza si dice invece di un tizio che era un giovane assassino che quando si doveva presentare a qualcuno con una certa finezza, diceva come per vantarsi: “Sono Rodion Romanyc Raskol’nikov, ex studente”, oppure dello stesso tizio che recandosi da una vecchia usuraia vedendo la sua stanza tutta illuminata dai bagliori del tramonto pensa: “Anche allora dunque il sole splenderà così” e pensava al giorno in cui sarebbe tornato per ucciderla con un’ascia. Capita anche di imbattersi in brani che sono piccoli bignami dei grandi romanzi russi come Anna Karenina di Tolstoj o una sommaria descrizione (per quanto possibile) dell’indimenticata opera di Iosif Brodskij Fondamenta degli Incurabili. Del Premio Nobel per la letteratura del 1987 Sergej Dovlatov nei suoi Taccuini dirà che questo pensava che Komintern fosse il nome di un gruppo musicale. Vale di Brodskij citare alcuni brani citati nel volume tratti dal suo Fuga da Bisanzio:
Negli anni trenta e quaranta il regime sovietico sfornava vedove di scrittori con una tale efficienza che verso la metà degli anni Sessanta ce n’era in circolazione un numero sufficiente per organizzare un sindacato.
A Leningrado come in ogni altra parte della Russia alle nove del mattino era più facile incontrare un ubriaco che un tassì.
I russi non ricorrono mai agli psicanalisti perché la psichiatria è di proprietà dello stato e per questo si sono abituati a sbrigarsela da soli con tutto quello che succede nelle loro teste, senza bisogno di alcun aiuto esterno.
Insomma, anche nel suo caso esseri strampalati ma prettamente letterari fino alle viscere come quello che diceva che il Michigan gli metteva un po’ di claustrofobia perché era troppo all’interno del continente, tipo una virgola in Guerra e pace, con pagine e pagine da entrambe le parti.
Accade anche che di alcuni romanzi dai quali i brani citati sono molteplici si riesce quasi a percepirne gli sviluppi, quasi li stessimo leggendo. È il caso di Un miliardo di anni prima della fine del mondo di Arkadij e Boris Stugarckij, volume curato e tradotto da Nori per Marcos Y Marcos verso il quale l’autore emiliano non nasconde una speciale predilezione citandolo più volte in dei brani che iniziano invariabilmente con “Uno che era Dmitrij Alekseevic Maljanov, scienziato di Leningrado specializzato nella fisica e dinamica dei corpi celesti…” proseguendo poi con la narrazione delle sue varie disavventure. Autori come questi, che non diranno molto ai più ma dei quali viene voglia di leggere tutto e che messi accanto ai grandi della letteratura russa ne sembrano fratelli, magari di autori come Čechov; dal suo indimenticabile racconto, ispirato dal suo viaggio sull’isola di Sachalin, i selezionatori del volume hanno estratto una indimenticabile battuta: quando gli avevano chiesto quanti anni aveva, aveva risposto: “Trenta, o forse cinquanta”. È di Čechov che Ivan Bunin in A proposito di Čechov ci dice che il grande autore e drammaturgo aveva esordito senza pensare di diventare quello che è diventato, avendo voluto scrivere solo per necessità economica, dicendo che lui scriveva come i reporter scrivono di incendi, in uno stato di semicoscienza, senza pensare a sé stesso o ai lettori.
Qualche esempio
Potremmo andare avanti ancora, ma rischieremo di riportare tutti gli 848 brani, perché appunto questo libro è come una scatola di cioccolatini, e la voglia di dire “ancora uno” è forte, e allora ancora alcuni:
Uno che faceva il fabbricante di bare e aveva messo un’insegna davanti alla porta di casa ove diceva che si riparavano bare semplici e tinte, si davano anche a noleggio e si riparavano le vecchie (Puskin – Umili prose)
Un insegnante di ginnasio il cui unico interesse era far carriera e che detestava sia gli studenti che i libri. I primi perché non aveva cuore, i secondi perché non aveva voglia di pensare. Ciò nonostante, da giovane per apparire uno dalle idee liberali teneva i libri in bella vista mentre ora si adeguava ai tempi nuovi bruciandoli egli stesso nel camino per la paura di essere denunciato, il tutto senza che quest’uomo abbia mai avuto un’opinione. (Fëdor Selogub-il demone meschino)
Anna Achmatova racconta che una volta al Cane randagio mentre tutti cenavano e facevano gran rumore a Majakovskij venne in mente di leggere dei suoi versi e a lui si avvicinò Mandel’štam dicendogli: “La pianti di leggere versi. Non è mica un’orchestra rumena” (Anna Achmatova-Mandel’štam, fogli d’album).
Uno che scriveva romanzi con titoli di una sola parola perché aveva notato che la divulgazione delle opere letterarie era facilitata quando i titoli venivano utilizzati nei cruciverba convinto che le parole crociate fossero un ottimo strumento di promozione. (Vladimir Vojnovic – Il colbacco).
Come Velimir Chlebnikov che non voleva essere definito poeta perché aveva scoperto che la parola “poet” nelle lingue slave non esiste e avrebbe voluto essere definito nebopisec traducibile come “scrittore di cieli o cieloscrivente” (Velimir Chlebnikov-47 poesie facile e una difficile).
E molti altri, si ricorda che sono ben 848 e di varia lunghezza, con incursioni non solo di russi ma anche di chi li ha amati, come Nori e anche Serena Vitale che altrettanto li ha tradotti e che nel suo Il bottone di Puskin (Adelphi 2000) scrive che c’erano dei giudici, c’era scritto negli atti giudiziari di un duello pubblicati nel 1900, che avevano disposto di non applicare all’imputato la condanna a causa della sua morte o sempre dallo stesso che il direttore delle poste di Mosca non resisteva alla tentazione di aprire le lettere e leggere ad amici e conoscenti quel che c’era scritto diventando per questo suo vezzo “felice come uno storione nell’Oka”.
Non mancano aforismi illuminanti come quello che dice che anche le fontane hanno diritto di riposarsi ogni tanto (Kozma Prutkov-Aforismi) o altri sempre dalla stessa fonte più terribili dove si dice che il primo passo di un bambino è il primo passo verso la sua morte, cose che fanno il paio con scene da Grand Guignol come colui che dopo aver visto decapitata la propria amante l’aveva usata per mostrare ai presenti quante e quali fossero le vene che passavano dalla testa al collo (Jurij Tynianov-Persona di cera).
Insomma, ce ne è per tutti i gusti comprese le intromissioni “noriane” che in alcuni casi pescano commenti trovati sul web dove si può leggere di qualcuno che dice che i libri non vadano messi a caso nella propria libreria, facendo l’esempio di sé medesimo che ha messo Anna Karenina vicino a Don Chisciotte perché è sicuro che farà di tutto per salvarla.
E così fino alla fine, quando di questo libro da leggere e godere fino in fondo, quando potremo gustare anche la retrocopertina ove è riportato un brano che parla di Viktor Šklovskij, lo stesso che racconterà di uno che aveva spesso mal di denti e disegna una giraffa con la bocca fasciata (Viktor Šklovskij-Majakovskij).
“Uno che si chiamava Viktor Slovskij, era innamorato di una donna che non aveva tempo per lui. Questa donna gli avevo dato il permesso di scriverle purché non le scrivesse d’amore. Lei gli scriveva. ‘Io non ti amo e non ti amerò’. E lui scriveva: ‘Non vale la pena di piangere, vedi, io sono allegro e leggero come un ombrello estivo’” (Viktor Šklovskij-Zoo o lettere non d’amore).
Comicità sublime, spasso, leggerezza ma anche riflessione che ci fanno dire con Giorgio Manganelli nella breve epigrafe introduttiva che “Periodicamente nella vita veniamo accolti da un attacco di leggere i russi” e si potrebbe aggiungere viene anche la voglia di iscriversi a uno dei possibili prossimi seminari tenuti da Nori con il patrocinio di To soréla entertainment visto che nella nota finale ci viene spiegato che la scelta dei matti che ha dato vita a questo libro è fatalmente parziale, legata a quelli che sono sembrati più convincenti ai seminaristi ma che se ne potrebbe scrivere un secondo, un terzo, un quarto, fino a un ottavo volume. Non resta che attendere l’apertura delle iscrizioni.
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Complementare a questo articolo, è il video che vi proponiamo, tratto dal canale YouTube di Enrico Stiaccini: fiorentino, bibliofilo, con una spontanea e naturale disposizione per il teatro e la recitazione, Stiaccini si è cimentato in diverse produzioni di vario genere (prosa, teatro vernacolo, operette e concerti) nel teatro fiorentino a partire dagli anni 1990 e tuttora, saltuariamente, continua a svolgere una qualche attività sia come attore che come cantante. Buona visione.