È un romanzo perfetto e senza salvezza, “Génie la matta” di Inès Cagnati. Una madre silenziosa, una figlia bastarda, sono l’immobile bersaglio di una crudeltà feroce, a cui Gènie risponde con pianti impassibili e rifiuti laceranti. E coltivando il miraggio di una possibilità
Dicevano che era matta, Gènie. Tra di loro e davanti a lei, era sempre “Génie la matta”. Una locuzione composta da un abbreviativo, come se ci fosse confidenza, come se la mancanza di rispetto fosse inevitabile per una donna come lei, a partire dal suo nome, e tale mancanza si ripercuotesse poi in ogni singolo, esausto passo che avrebbe mosso per andare a faticare in una delle fattorie disperse nella nuda campagna francese agli albori della Seconda guerra mondiale.
Alle sue spalle, che trotterella spaurita, c’è Marie la piccola, Marie la bastarda, la figlia che Génie ha avuto in seguito a quella che tutti chiamano la “disgrazia”.
E Marie la insegue questa mamma silenziosa, avvinta dal freddo delle albe rigide e nebbiose e dalla paura di essere seminata, abbandonata, lasciata sola in mezzo al fango colloso delle grigie stradine a sterro. Ha paura, Marie, e insieme brucia d’amore, si affaccia, con l’imprudenza e l’ingenuità dell’infanzia, all’orlo di un dolore squarciante, insostenibile, fisiologicamente esposta ai duri colpi di una madre che non sa farle da madre e che, tuttavia, cerca di garantirle la minima sopravvivenza.
I vestiti di Marie sono gli stracci della vergogna e dell’elemosina. Con qualche pezza la mamma, ogni tanto, le fabbrica anche una bambola. I pranzi e le cene sono cumuli di avanzi, a cibare madre e figlia gli scarti di una comunità intera.
Perché Génie, e il frutto della sua disgrazia, non si meritano niente, neppure la pietà.
Insieme sono il perfetto, immobile bersaglio di una crudeltà feroce, che si riversa su di loro come sul resto del creato.
Le bestie vengono ingozzate, macellate, spiumate, violate e la stessa sorte tocca a Génie, sfruttata fino al midollo, abituata al ritorno dai campi coi piedi distrutti, incrostati di terra e paglia, e ad una figlia minuscola che la aspetta, tremante di paura, nel buio ululante di un tugurio piantato sotto ai salici, anche loro impazziti.
E quello che riceve Génie lo restituisce sotto forma di silenzi inscalfibili, pianti immobili e rifiuti laceranti: «Non starmi sempre tra i piedi!», intima a Marie che la rincorre, sfinita e imbrattata di terra e lacrime, per ottenere un po’di attenzione.
In mezzo alla grettezza più cieca, agli scherni e agli abusi, però, si aprono spazi di selvaggia, nuda bellezza. Al centro di questa poesia ancestrale gli elementi naturali e le parole di chi ne coglie, piuttosto che il vantaggio, l’intima essenza.
Sono questi gli echi di un amore lontano, da sempre atteso.
Il miraggio della possibilità, la promessa di una speranza che si rovescia nel colore del giorno, nel movimento degli oceani, nel popolamento dei cieli, si incarna dentro a isole inviolate, paradisi terrestri all’oscuro del peccato originale.
Inès Cagnati imprime al suo romanzo Génie la matta (184 pagine, 18 euro), tradotto da Ena Marchi per Adelphi, perfetto e senza salvezza, un movimento di terra e di sangue a cui non possiamo sottrarci e, allo stesso tempo, si getta oltre il dolore, scoprendo i lucenti bordi di una speranza che vorremmo coltivare, se solo potessimo.
Ogni comunità ha bisogno di generare i suoi mostri, matti artificiali che nascono da una follia di massa, persone che assumano su di sé il peso dei peccati e delle inadeguatezze di tutti e che li esorcizzino, non importa a quale costo. La differenza tra l’essere matto e il diventare matto non è allora mai stata più chiara e sottile: Génie, che matta non è affatto, è spinta a tutta forza verso la pazzia dalla folla ignorante e sanguinaria.
E Marie, sempre piccola, come in una filastrocca, la rincorre inciampando, imbrattata di terra e di lacrime.
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