Le domande senza risposta, gli amori vissuti come se fossero definitivi, oltre all’epoca delle grandi rivendicazioni. È tutto incarnato nei racconti di “Altri libertini”, prima prova letteraria di Pier Vittorio Tondelli, che ha saputo davvero scrivere di una generazione
Se mi chiedessero com’è sentirsi giovani – a me, che ancora non ho raggiunto neanche la soglia dei venticinque – risponderei che è come vivere un tempo di interrogativi rimandati, in cui le cose cominciano e, molto più raramente, finiscono; un tempo di incontri e uscite furtive, di esplorazione che non teme i vicoli ciechi; un tempo al presente, insomma, in cui il futuro sembra troppo lontano e il passato troppo vicino per assumere una forma davvero definitiva.
Sono convinta che ciascuno di noi possegga una scatola dei ricordi – sia essa di carta o di pensieri nascosti -, un contenitore di quei momenti in cui si è provata la consapevolezza solida e incontrovertibile che era quella, proprio quella, la giovinezza: quella libertà di tentare senza il timore delle conseguenze, di lasciarsi andare con uno sconosciuto o ballare in una piazza piena di gente ma senza musica, solo per il gusto di sentirsi vivi, di poterlo fare. E se dovessi perdere quella sensazione lì – l’entusiasmo, l’ingenuità, le prime disillusioni – basterebbe poco a ritrovarla e rifarla mia. Basterebbero le prime pagine di Mimi e istrioni, per esempio, o certe frasi di Viaggio: due dei racconti che animano le pagine di Altri libertini (208 pagine, 9,50 euro), edito da Feltrinelli, prima prova letteraria di un autore che forse, più di altri, ha saputo davvero scrivere di una generazione – Pier Vittorio Tondelli.
Quasi un corto in presa diretta
Altri libertini non è un romanzo. Non ha la coerenza, l’organicità né la compiutezza di un romanzo. Ma è forse questa la sua forza: questa capacità di ammassare, a volte confusamente, delle impressioni, dei fotogrammi rubati, quasi fosse un corto in presa diretta della vita per come accade quando hai vent’anni. Quell’affannarsi nel trovare un senso alle esperienze che si stanno vivendo, per esempio, che è spesso improduttivo; la voglia di viaggiare senza avere alcuna destinazione e dormire a casa di sconosciuti, e cucinare una pasta scotta ridendo perché cosa vuoi che ne capiscano, loro che sono stranieri, di quello che abbiamo fatto; le corse, a perdifiato, da una strada all’altra, urlando, cadendo, mentre il vento scompiglia i capelli e non sai mai cosa verrà dopo, quale altra avventura. O, ancora, la disperazione di un amore finito, di un amore che è stato, nell’ordine, ingenuo, appassionato, rabbioso, totalizzante, scarnificato, e poi tenero, commovente, di nuovo rabbioso. La difficoltà di ritrovarsi. Di guarire. La vendetta servita fredda a un ragazzo che credeva di essere il centro del mondo; il vuoto vitreo di una crisi d’astinenza in un bagno sporco, mentre due amici ti tengono per le spalle impedendoti di affondare nei tuoi stessi umori. La vergogna, l’umiliazione, la paura di un’aggressione omofoba. E il viaggio, che inizia sempre ma non finisce, perché è un po’ il senso stesso di questa nostra vita: partire senza conoscere l’itinerario, entusiasti e impauriti allo stesso tempo, lanciati verso il futuro.
Prosa selvatica e ruvida
Leggendo Altri libertini si vivono moltissime cose, e non è detto che si riesca ad afferrarle tutte, perché la prosa è libera di fluire al pari dei giorni che si accavallano l’uno dopo l’altro, e gli occhi seguono il conto delle righe come davanti a una rissa in cui non sai chi è sopra e chi è sotto, chi sta vincendo e chi ha perso. La scrittura di Tondelli ha il pregio di essere selvatica e ruvida esattamente come le esperienze che investono i ragazzi di cui racconta; non si scherma, non si tira indietro: accoglie, insieme, il vomito e i baci rubati, la disperazione urlata a squarciagola e i silenzi inconcludenti dietro a cui si nascondono le verità più intime. E c’è qualcosa di straordinario nel modo in cui riesce a catturare quell’esperienza contraddittoria e insolvibile che è, appunto, la giovinezza, quel camminare euforici su un filo sospeso nel vuoto, senza imbracature.
Nel pomeriggio percorriamo i viali dei Giardini Margherita, io che pedalo e lui sulla canna col gelato che sbrodola sulle braccia e mi piace da morire sentirgli il suo odore appoggiandogli le labbra al collo e dietro le orecchie. Fino a sera pedaliamo ubriachi quel magnifico quattordici settembre, un caldo primaverile, una luce schietta che quando il sole va giù i mattoni di Bologna avvampano rossi come se la città dovesse da un momento all’altro bruciare e noi restare i soli superstiti scendendo allacciati dai colli verso le macerie sulla nostra bicicletta fiammante.
Mai preparati al futuro che incombe
Ho letto Altri libertini la prima volta a dicembre, e mi è sembrato di riuscire ad accedere a un’esperienza – quella dei collettivi, delle grandi rivendicazioni – che fino a quel momento avevo soltanto potuto indovinare tra le pieghe dei racconti dei miei genitori. Poi l’ho letto di nuovo, a gennaio. E ho scoperto che c’era anche qualcosa di mio, in quei racconti: le domande senza risposta, gli amori vissuti come se fossero definitivi, un «pomeriggio vuoto di febbraio» e l’ombra inquieta di un futuro che incombe, davanti al quale non esisterà mai preparazione adeguata.
La Sylvia […] dice che abbiamo pagato troppo caro il prezzo per la ricerca di una nostra autenticità, che tutto quanto abbiamo fatto era giusto e lecito e sacrosanto perché lo si è voluto e questo basta a giustificare ogni azione, ma i tempi son duri e la realtà del quotidiano anche […] che è stata tutta un’illusione, che non siamo mai state tanto libere come ora che conosciamo il peso effettivo dei condizionamenti.
Qualcuno ha definito questa raccolta un libro dalla temporalità coatta, in cui non esiste né futuro né passato, ma solo il presente, il viaggio colto nel suo svolgimento. Ecco, non credo esista un’immagine più potente di questa per spiegare com’è sentirsi giovani: la vita che accade e non sai mai cosa ne verrà, il disordine di eventi a cui non sai – e non puoi – dare significato. Il presente che si impone e adombra tutto il resto.
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