Alice Bignardi, le madri possono fallire ma mai per disamore

Una sofferta ma inossidabile relazione fra una madre e una figlia è il fulcro del primo romanzo di Alice Bignardi, “La buona educazione”. Territorio gigantesco e complesso, ma che l’autrice maneggia con cura. Lo struggimento che si materializza nelle pagine con gradazione sempre crescente è l’apice della narrazione e conduce a una presa di coscienza…

La buona educazione di Alice Bignardi, esordiente della scuderia E/O, è un romanzo dall’esiguo numero di pagine, 128, e dalla trama essenziale, attingendo esclusivamente al rapporto tra una madre morta prematuramente e la primogenita. Eppure, gli aggettivi “piccolo” e “semplice”, adoperabili per sintetizzarne le caratteristiche, vanno obbligatoriamente virgolettati, poiché sono quasi ossimoro della dirompente corposità del tema. La materia maneggiata da Bignardi, infatti, con il persistente effetto di risonanza che produce, spinge il romanzo in un territorio gigantesco, tanto vasto e complesso da metterne in secondo piano e la brevità e la linearità estrema dell’intreccio narrativo.

Le stanze del vissuto

Che si calzino le scarpe di madri o di figli, i romanzi psicologici che lavorano di scalpello sulle dinamiche del rapporto affettivo per antonomasia, quello tra genitori e prole appunto, che penetrano le stanze del vissuto dove si è realizzata la costruzione dei tratti psicologici di un individuo, risucchiano inevitabilmente il lettore, lo collocano al centro della storia, obbligandolo a profonde meditazioni personali. La buona educazione non fa eccezione. In più tocca e coinvolge in maniera diversa a seconda del ruolo con il quale vi si accede. Non può essere altrimenti. I figli saranno costretti a ripensare alle modalità con cui sono stati cresciuti, finendo talvolta per evidenziare le colpe dei genitori, mentre questi ultimi ragioneranno in termini di responsabilità, di necessità e di autoassoluzioni per “eccesso di amore”.

La versione di Lisa

Protagonista de La buona educazione è Lisa, rimasta orfana durante gli anni dell’università. Il flusso unico di ricordi, di cui si compone il libro, appartiene soltanto a lei, nonostante duetti costantemente con la mamma Antonella, che è, dunque, non coprotagonista bensì sua spalla. La terza voce narrante, alla quale Alice Bignardi affida il racconto è, senza dubbio, “dalla parte” di Lisa. Rielabora e riferisce gli episodi salienti del passato seguendo esclusivamente la mappa delle emozioni, dei traumi, delle felicità e delle infelicità di lei. La storia la scrivono i vincitori o, nel caso in cui non ve ne siano, i sopravvissuti. Dunque, questo romanzo è decisamente “la versione di Lisa”.

Una madre colta e intransigente

Antonella è un prototipo di madre che mi piacerebbe definire superato, ma che mi tocca invece riconoscere come inossidabile. Altoborghese, colta, personalità ben strutturata, opinioni forti su tutto, volitiva. Né pregi, né difetti. Anzi, fin qui un elenco di potenziali virtù. Divengono pecche quando si coniugano alla rigidità e alla intransigenza con le quali la donna esercita le sue mansioni. La Antonella che emerge dai ricordi di Lisa è, in modo esclusivo nei confronti della primogenita, un’educatrice esigentissima. Più vicina ad una precettrice-addestratrice che a una madre. Sottopone Lisa ad un allenamento multidisciplinare meticoloso, quasi feroce, alla vita. Nulla, eccetto la malattia in fase terminale, può farla desistere dal proposito di plasmare, fino a renderla perfetta, la creatura che ha generato. L’evoluzione o involuzione – se si preferisce – dalla condiscendenza dell’infanzia, con cui Lisa le obbedisce, alla modalità oppositiva che si manifesterà nell’adolescenza, è un esito quasi scontato, ma non per questo meno lacerante per la coppia o meno deflagrante per il lettore.

Un legame d’amore

Spesso certe storie le scrivi perché le hai vissute e te ne vuoi alleggerire. Il famoso potere terapeutico della scrittura. Così, per accreditare il mio sospetto che Alice Bignardi abbia attinto a vicende personali, ne ho spulciato la biografia. Nulla che mi venga in aiuto, eccetto l’avvertenza secondo la quale: «I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera e i nomi e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente frutto dell’immaginazione e della libera espressione artistica dell’autrice. (…)».Determinante dal farmi desistere dal mio proposito – che riconosco superfluo – di stabilire se abbia tra le mani un memoir camuffato.  Importante, in fondo, non è cosa si narra, ma come lo si faccia. Riconosco i meriti di Alice Bignardi. Ha costruito un racconto convincente, coerente, verosimile. Ha lasciato margini di spazio in cui – al di là dell’adesione istintiva al dolore e al disagio di Lisa – è possibile solidarizzare anche con Antonella.  Le madri spesso falliscono o, quanto meno, sbagliano, ma raramente ciò succede per disamore. Lo smarrimento in cui Lisa prorompe nel finale, lo struggimento che si materializza nelle pagine con gradazione sempre maggiore quanto più si avvicina all’epilogo della storia, non solo rappresentano l’apice della narrazione, quanto altresì la presa di coscienza di quanto sia indissolubile, benché sofferto, quel legame d’ amore.

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