La vita ci travolge, la felicità è vana, siamo tutti vittime e carnefici. Ce lo ricorda lo spericolato e irresistibile romanzo di Alessandro Piperno, “Di chi è la colpa”. Storia del figlio di una infelice coppia piccolo borghese che finisce per crescere in seno alla più che benestante borghesia ebraica di Roma. Facendo per sempre i conti col cruccio dell’identità, con menzogna e omissione della verità, con rovelli e fardelli della colpa, con i desideri frustrati dell’età adulta
Tra una lezione universitaria e una alla scuola Molly Bloom, una collaborazione e l’altra (ristoro in mezzo a tante articolesse), le partite della Lazio, la responsabilità dei Meridiani, come successore di un gigante, Renata Colorni, il cinquantenne Alessandro Piperno ha messo pazientemente a punto un nuovo romanzo, rinnovando ancora la fiducia in una forma letteraria – naturalmente aggiornata al ventunesimo secolo – che è suo pensiero costante e autori molto meno dotati snobbano, maledicono. Forse solo perché non sono in grado di scriverne. Piperno, invece, con una caratterizzazione psicologica totale dei personaggi, anche i minori, con prosa ricercata e sapiente, e con qualche piccola inevitabile caduta nei manierismi (il manierismo ci ha sempre fatto simpatia, da Salinger in poi) dei propri stilemi, ne ha scritto un altro dei suoi, ben orchestrati, irresistibili e spericolati, opulenti e fluviali, felicemente imperfetti, come l’esordio, come quelli del dittico Il fuoco amico dei ricordi e perfino come il romanzo anti-piperniano per eccellenza Dove la storia finisce, troppo rapido e poco compassato per i gusti dei più rigidi tifosi del Nostro. Ma tant’è.
La mano più infida
Leggendo l’ultimo Di chi è la colpa (434 pagine, 20 euro), come sempre per Mondadori, si fa in tempo, per una settantina di pagine a prender confidenza col ménage familiare del protagonista romano senza nome che si racconta e racconta i genitori (padre salesman di elettrodomestici che si professa marxista, madre inappuntabile professoressa di matematica al liceo). Fin quando il padre guascone, anzi cialtrone, alla vigilia di “una bella rimpatriata di un Seder di Pesah”, rivela al figlio le origini della madre, ebrea allontanatasi dalla propria famiglia, i Sacerdoti (che in più di un passaggio ricordano i Sonnino di Con le peggiori intenzioni), probabilmente a causa del matrimonio con un gentile, “il chiuso”, “il cananeo”. Per il ragazzo è una giravolta non di poco conto.
Ti insegnano a parare i colpi dal mondo di fuori, a temere ciò che non ti riguarda – a cominciare dai cosiddetti estranei; ti diffidano dal mollare la mano della mamma in una piazza affollata perché non si sa mai; ed ecco che un giorno la vita ti mette di fronte alla più beffarda verità morale: i primi di cui sospettare, da cui proteggerti sono proprio quelli che ti hanno messo in guardia dagli altri. È loro la mano più infida.
Da goffo e inadeguato a spocchioso e insolente
Piperno si diverte a lasciare il dubbio con particolari pseudo-autobiografici, inducendo scafati critici a chiedersi, anzi a dare per scontato che lo scrittore stia raccontando la propria vita. Poco importa. Conta il filo rosso della “colpa”, combustibile delle peripezie di un antieroe che si sente, ed è, sempre fuori luogo, alle prese con segreti familiari, con domande eterne e menzogne, paure e rimpianti, dissidi interiori, specie quando si troverà catapultato, grazie ai Sacerdoti, in un’esistenza di benessere e privilegi (se la gode ma dubita dei pilastri su cui si regge), dopo anni di una normalità piccolo-borghese, fatta di debiti e litigate notturne di mamma e papà. L’ipocrisia di una Roma alto borghese degli anni Ottanta e Novanta, incarnata per il protagonista dallo zio Gianni, avvocato di grido che di fatto lo adotterà e introdurrà in un mondo nuovo, anche quello della cultura e religione ebraica, trasformeranno per sempre la vita di un ragazzo che diventerà uomo continuando a chiedersi di chi è la colpa del suo passato, delle sue mancanze, responsabile di una metamorfosi infelice, di tragedie (a cominciar dalla principale, che riguarda la madre) del suo primo amor (perduto) Francesca, sua musa prima e dopo essere diventato uno scrittore (“i miei romanzi ebraici, le pompose saghe in cui davo conto di un mondo in cui mi ero intrufolato da impostore”), che certo preferiva l’inadeguatezza goffa e la gentilezza della sua gioventù ai modi spocchiosi e insolenti, alla maldestra sfrontatezza dell’età adulta, e che gli dice di preferire decisamente George Elliot (che aleggia come nume tutelare, in particolare con un’opera, Daniel Deronda, su tutto questo romanzo iperletterario di Piperno, iperletterario è un complimento) al cugino scrittore: “Avevo riposto in lui parecchie aspettative. Diciamo che non sempre ne è stato all’altezza”.
L’autobiografia di un baro
Piperno dipana così, tra anticipazioni, colpi di scena e una secca introspezione psicologica, l’autobiografia di un baro, un virtuosistico esercizio di intelligenza che, più delle altre volte, guarda a Saul Bellow. Tra i sogni e il disincanto si muove il ragazzo che diviene uomo (“eroe di un romanzo vittoriano, e quindi nel più losco degli impostori”), col passare dei capitoli – intarsiati da periodi lunghi e parentesi e digressioni – lascia la periferia dormitorio e scopre le zone residenziali sull’Aventino, fa i conti sempre più con il cruccio dell’identità, la menzogna, con l’omissione della verità (anche la sua biografica, che qualcuno fa affiorare), con i rovelli e i fardelli della colpa, i desideri frustrati dell’età adulta, con la consapevolezza che tutti, reticenti e non autentici, recitiamo, con la ricerca di capri espiatori, con la scoperta che poco, pochissimo è quel che sembra (basti pensare al personaggio di Myriam la stracciona, prima crepa nel passato con cui la madre aveva voluto rompere i ponti). La vita è inarrestabile, faticosamente ci travolge, sembra ripeterci a ogni pie’ sospinto il narratore, e la ricerca della felicità è vana e siamo tutti vittime e allo stesso modo carnefici.
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