Un ricordo di Vincenzo Consolo, a un decennio dalla scomparsa, tra i paesi dei contrafforti dell’Appennino siciliano, indignato contro le “narratologie da esportazione”. E il rimpianto di un ultimo appuntamento mai avvenuto…
La letteratura siciliana nel Novecento è stata una nervatura tra le più vigorose della produzione letteraria e critica italiana: si è trattato di un laboratorio, di una scuola, di un’elaborazione collettiva, parola tra l’altro pericolosa ed eretica, soprattutto da queste parti. Vincenzo Consolo è stato uno dei fondamenti di quell’edificio.
Nato nella lussureggiante Sicilia nord-orientale, lontano dai colli inspiegabilmente calvi e dalla terra bruciata dalle miniere della Sicilia gialla, sentì il dovere letterario e civile di ripercorrere i luoghi interni, ctoni, dei suoi maestri, dove si era svolto, e perduto, l’azzardo della modernità siciliana.
Sulle tracce di Vittorini
Lo incontrai, viandante, nei paesi dei contrafforti dell’Appennino siciliano: andava alla ricerca della Sicilia fredda, austera e progressista del Gran Lombardo, sulle tracce di quel mito rivoluzionario del Vittorini di Conversazione in Sicilia. La stessa Sicilia appenninica del Val Dèmone dove, ne Lo spasimo di Palermo (dopo le bombe del 1992) individuava un possibile/impossibile scampo, anche se solo un breve ristoro, nulla più, in quella terribile stagione era concesso.
Il senso della scrittura
Parlare della Sicilia, per Consolo, significava parlare dello Stato politico-mafioso che, sottolineava, è sempre più forte. Ma era soprattutto un continuo discorso sulla letteratura. Ogni conflitto, ogni discorso pubblico, per uno scrittore, andava attuato, secondo Consolo, in modo integrale, a cominciare dal senso storico, dal linguaggio, dalla testimonianza degli ambienti al di là di ogni stereotipo. Quando si pensa alla Sicilia, si pensa sempre all’idea di metafora. Ricordo sempre una delle sue illuminazioni sul senso della scrittura che mi raccontò come una fiaba: una volta era in Grecia e vide un camion di traslochi dove c’era scritto μεταφορά (metaforá): trasporti, appunto. Ebbene, poche volte ho sentito spiegare il senso della scrittura in modo più immediato: trasporto, che vuol dire pure disseminazione, immedesimazione, emozione, oltre che, naturalmente, trasferimento di senso. Cosa chiedeva Consolo alla sua terra e cosa deve offrire la riflessione letteraria, dunque, all’ecosistema culturale che la genera?
La lingua turistica, Consolo tradito
La letteratura siciliana di oggi, se ha un senso utilizzare ancora etichette simili – ma io penso di sì – porta dentro di sé la responsabilità di tessere una maglia ora larga ora stretta. C’è un’assenza, troppo frequente, di intermediazioni ed elaborazioni diffuse: male oscuro in Italia ma ben più profondo e più oscuro nelle periferie del sud. E, dunque, le narrazioni che sentono la necessità di crescere rispettando le esigenze culturali di un luogo, devono ricostruire legami e nodi ampi, capaci di raggiungere lettori distanti, dispersi. Il discorso sulla lingua è il punto di partenza, in una terra apparentemente bilingue, ma il più delle volte sorda a qualsiasi linguaggio scritto. La lingua della letteratura siciliana, oggi, è ancora il centro di ogni punto di vista, è il monocolo del ciclope, lo specchio delle intenzioni. A tutti appare, però, evidente quali siano alcune tendenze editoriali a proposito degli autori siciliani, verso una descrizione neo rusticana dell’isola, dove non mancano fughe verso miti consolatori. Questa tendenza è, penso, un tradimento della ricerca di scrittori come Consolo: scrivere una lingua orale significa, del resto, dispiegare gli etimi ma anche suggerire i significati non spiegabili. Un equilibrio assai instabile, ad oggi spesso dimenticato in favore dell’intrattenimento, di una lingua in fondo turistica.
La parola scenica
Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo. Ed è stato ripubblicato lo scorso autunno, La Sicilia passeggiata (176 pagine, 16 euro), con le foto di Giuseppe Leone (Mimesis). È uno scritto trasparente, assomiglia ad un glossario delle sue prose, dove l’autore scioglie le sue stesse trame. E non è un caso che le proponga come didascalie, che però lo sono sempre al modo etimologico della parola rivelata, la singola parola, o addirittura le pure sillabe, che nascondono, in Consolo, i significati più profondi. È un po’ come l’idea verdiana della “parola scenica”: la musica e il senso interni ai termini contano più dell’insieme, più della storia raccontata. Come in un discorso circolare, Consolo spiega il suo percorso dicendoci, nello stesso tempo, che non serve spiegarlo.
Scrivere la Sicilia, secondo Consolo, significa allora raccogliere i frutti dell’olivo con le mani segnate dalle ferite delle spine dei rami dell’olivastro:
spuntano dallo stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano.
(L’olivo e l’olivastro)
Consolo che inseguiva Vittorini che inseguiva la Sicilia del Gran Lombardo. Un itinerario come quello di un altro personaggio di Vittorini, il pastore-ragazzo Rosario de Le città del mondo, attraverso il Val Dèmone, lombardo nella lingua e nei toponimi, luogo mitico ma reale di una storia che può seguire altre strade, per dimostrare che proprio la storia, e il mito, in Sicilia, non sono solo sogni.
La nebbia settembrina e l’incontro mancato
Durante un’affollata cena, ci prese per mano e ci portò fuori: “La letteratura in Sicilia – ci disse con la sua tranquilla fermezza – ha perduto la propria visione unitaria, non segue più la ricerca degli ‘altri doveri’. Non è per forza un male, anche se sembrano prevalere delle letterature di solo intrattenimento. Io le chiamo narratologie da esportazione, nulla più. Ma capisco la vostra indignazione. Mi indigno anch’io, in verità. Eppure non voglio pensarci ora, portatemi in giro in questa nebbia di settembre”. Era felice, poiché aveva ritrovato quello che cercava nel Val Dèmone, la Sicilia lombarda, almeno nel clima.
Qualche tempo dopo, al telefono, parlando di tante cose, di Sciascia soprattutto, cominciammo a discutere di vederci nella sua Sant’Agata, che sarebbe stato lì per qualche giorno. Gli dissi che avrei fatto di tutto per raggiungerlo e rivederci tutti insieme. Mi sarebbe bastato valicare i Nebrodi tra Cesarò e San Fratello, nel cuore della faggeta di Sollazzo verde, solenne sotto Monte Soro, sino appunto al mare di Sant’Agata. Un breve viaggio, di sole due ore, nella Sicilia che era stata al centro della sua descrizione del Risorgimento degli ultimi, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Inspiegabilmente, non lo raggiunsi. E non ci fu il tempo di vederci mai più.