Piuttosto che assistere alla banalità del buonismo dell’attore al festival di Sanremo… meglio leggere della trans protagonista di un gran libro, “Le cattive” di Camila Sosa Villada. Una testimonianza, scomoda e conturbante, di una storia personale che sembra avere un lieto fine ma che è passata dall’inferno
Ho fatto dell’ironia il mio scudo permanente e del sarcasmo un’arma nucleare (usata con parsimonia), ho riso anche in momenti inopportuni e di cose per cui non c’era niente da ridere. Per questo mi dispiace aver provato fastidio durante lo sketch di Checco Zalone al Festival di Sanremo. Ma non perché quel palco non sia adatto (ne ha viste di ogni) o perché il pubblico non sia recettivo o perché non è “politically correct”. Quello che trovo scorrect e anche un po’ offensivo della mia e dell’altrui intelligenza, è la banalità, che è pure peggio del luogo comune. La banalità (del male, in questo caso del buonismo) deriva spesso dall’ignoranza. Si, mi dispiace Checco Zalone e tutti i suoi spiritosissimi fans, sei, siete, siamo, tutti ignoranti, nel senso etimologico del termine.
Quando non c’è sostanza…
Forse l’esperienza dell’omosessualità la facciamo tutti, in varie modalità, anche solo come forma esasperata di affetto e stima ma, dover vivere dentro un corpo che non ci appartiene e ci imprigiona, quello no, non possiamo avere idea di cosa significhi. È come la fantascienza più spinta. Ancora meno riesco a immaginare l’aberrazione di chi ne sfrutta la fragilità approfittando del piacere che può riceverne per poi fare esplodere, in una furia assassina, le sue frustrazioni e i sensi di colpa.
Ecco allora, la parabola musicata della trans brasiliana (come se ci fosse un virus nell’acqua che bevono!), l’amore omosessuale e il Re, “che viveva un gran disagio”, padre omofobo che si scopre “cliente affezionato”, non solo non mi fa ridere, ma mi “fa venire il latte alle ginocchia”, come diceva mia nonna.
Ironizzare, dissacrare, va benissimo ma se non c’è sostanza c’è poco da ridere e, riesumare le trasgressioni di Lapo Elkan resta solo un’ipocrisia, come se un metalmeccanico non avesse le stesse pulsioni e perversioni del suo “padrone”.
L’unico luogo comune reale, purtroppo, è che molto spesso i transessuali finiscono sulla strada, e rischiano “il fosso”, perché di storie a lieto fine come quella della figlia di Cerezo (anch’io ho i miei Vip da citare) sembrano favole e, per questo, non fanno statistica. Mi sono sempre chiesta il perché. Perché decidono di trasfigurarsi, perché si vendono, perché s’infliggono la pena di essere insultate, malmenate, umiliate, col rischio di restarci secche. Perché?
La risposta a una domanda difficile
Come spesso succede, la risposta ad una domanda difficile è la più ovvia e la più logica.
Io l’ho trovata nel libro Le cattive (223 pagine, 16,50 euro) di Camila Sosa Villada (pubblicato da Sur con la traduzione di Giulia Zavagna), la testimonianza, scomoda e conturbante, di una storia personale che sembra avere un lieto fine ma che è passata dall’inferno.
Camila Sosa è nata Cristian, figlio di una madre sottomessa “che si vergogna di me” e di un padre violento e alcolizzato che provava a “raddrizzare” il figlio frocio a colpi di cinghia.
Il Parco Sarmiento è stata la sua casa; la Zia Encarna, Maria la muta, la sciamana Machin Trans e le altre fate ignoranti, esuli sociali che si travestono per essere felici, la sua famiglia. Chi l’ha desiderata, comprata, quasi ammazzata di botte, la sua storia d’amore.
Il corpo, uno strumento estraneo
“Las Malas”, Le Cattive, sono animali di uno stesso branco, prigioniere di un corpo che non gli appartiene e che per questo smette di avere importanza e assume un valore differente. Come si può rispettare, avere cura e proteggere qualcosa che ci è estraneo, che costringe e che tormenta, che imbarazza e che allontana anche gli affetti più cari. Per questo, diventa solo uno strumento, procura soldi, paga l’affitto e sazia la vanità.
Reagiscono come possono a quel brutto scherzo che la vita gli ha fatto, “quello che la natura non ti dà, te lo presta l’inferno”. Con l’olio motore sotto pelle si gonfiano le natiche e le mammelle, si passano strati di trucco sui visi irsuti, indossano abiti di paillettes che luccicano davanti ai fanali delle auto. La strada della prostituzione diventa una scelta più che un destino. Subire le ipocrisie più celate, le aberrazioni più esasperate di chi, alla luce del giorno, le considera mostri orribili e di notte cede alle proprie perversioni più recondite e paga per attimi di piacere, sembra essere l’unico mezzo per espiare un peccato originale.
Provare ad ascoltare
Il mio cuore di benpensante, per un attimo, mi balza in gola, trattengo il fiato e strizzo gli occhi quando il racconto di Camila Sosa Villada diventa troppo esplicito. Poi li riapro e ricomincio a leggere. Probabilmente non capirò mai del tutto ma, almeno, provo ad ascoltare e, magari, riesco anche a farmi due risate.
Ah! Un ultima domanda: come mai nessuno parla, nemmeno a sproposito, del caso inverso? Dell’identità di un uomo costretta nel corpo di una donna? Qualcuno me lo potrebbe spiegare con una barzelletta, chessò, sui carabinieri, magari alle due di sabato notte, prima di proclamare il vincitore del Festival.
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