Quella della cilena Diamela Eltit è una prosa che, felicemente, non dà tregua al lettore. Accade anche con il romanzo “Mai e poi mai il fuoco” dove un uomo e una donna (due ex rivoluzionari? due fantasmi?) vivono in modo opposto il mondo post dittatura: il primo vuol dimenticare, la seconda si interroga…
Una casa, poco più di una stanza, una specie di rifugio (o di prigione? o di sepoltura? vien da chiedersi addentrandosi nella lettura), accoglie una donna e un uomo. La loro esistenza sta evaporando, la rivoluzione (comunista) è perduta, la dittatura non è più d’attualità, ma la società sorta sulle sue macerie è quanto di più lontano sia possibile immaginare dai loro obiettivi, dai loro sogni. Sopravvissuti, clandestini, quasi sepolti vivi fra poche mura, i due ex militanti senza nome fanno i conti con i fantasmi di compagni perduti nella battaglia, torturati, spariti, o, forse, sono essi stessi fantasmi. Con la penna di Diamela Eltit – che i più attenti lettori italiani ricorderanno come autrice di Manodopera per Polidoro editore, di cui abbiamo scritto qui – e la traduzione efficace di Raul Schenardi, un plot del genere, quello di Mai e poi mai il fuoco (158 pagine, 16 euro), si trasforma in un’avventura. Un romanzo che è l’ennesima chicca del catalogo della casa editrice Gran Via.
Il passato condiviso, un figlio perduto
Non è ancora abbastanza nota in Italia, la cilena Diamela Eltit, in relazione al valore dei libri che ha scritto. Come questo Mai e poi mai il fuoco. Una storia intima eppure collettiva, una coppia dilaniata, una donna che fa i conti anche con la perdita di un figlio (mai andato da un medico o in un ospedale, per non mettere a rischio la clandestinità del nucleo rivoluzionario a cui apparteneva la madre), che si regge in piedi, in qualche modo, solo per quanto si è condiviso, nel passato, in termini di ideali, sfide, segreti, pericoli. Il racconto di Eltit sembra essere senza tempo, con passato e presente che si compenetrano, favoriti dallo stile frammentario della narrazione.
La memoria diversa
L’uomo è decisamente più statico, di movimenti e pensieri, accartocciato su se stesso, al tappeto, raramente si solleva dal letto, vuole solo dimenticare ciò che è stato. La donna, che talvolta s’avventura all’esterno, prova comunque a fare i conti col passato, a ricostruire episodi, senza sconti per la fragilità delle utopie coltivate, per gli errori commessi, per certo ruolo subalterno della donna perfino in seno alle cellule rivoluzionarie.
L’abbiamo perduto, il volto, il tempo ci ha trasformati in forme umane radicalmente seriali, di massa, ma dotate di un certo rigore, quella serie opaca e disciplinata in cui si riconosce un militante, un vero militante, proprio come noi che abbiamo seguito fedelmente il percorso dei nostri principi.
Realtà e allegoria
Lungi dall’essere cerebrale o, peggio cervellotico, quello di Diamela Eltit, è un romanzo psicologico che non disdegna un contatto stretto con dettagli relativi alla corporeità. A cominciare dagli anziani che la donna accudisce per rimediare un po’ di denaro, per continuare con le stesse membra in disarmo, in disfacimento dei protagonisti. Aspiranti eroi un tempo, adesso vulnerabili, macabri resti di un sogno incompiuto. La prosa, ora realistica ora allegorica, sempre sperimentale, della cilena Eltit non dà mai tregua, felicemente, al lettore.
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