“Allah 99” del regista, poeta e scrittore Hassan Blasim nasce da un blog. Si tratta di un libro ibrido, senza linea temporale e privo di apparente logica, in cui si alternano considerazioni personali, stralci di interviste, una corrispondenza elettronica fra politica e critica letteraria. Al centro dell’opera la condizione del rifugiato, la paura dell’ignoto, la disperazione di chi ha lasciato la propria terra per sopravvivere
Non ho molta dimestichezza con la letteratura araba, né quella antica né quella contemporanea. È un mondo per me lontano, che ho conosciuto – si fa per dire – solo attraverso i telegiornali, spesso per via di notizie tragiche: guerre, bombe, kamikaze. Sono tutte le parole che mi fanno pensare al Medio Oriente, al Libano, all’Afghanistan o all’Iraq. Ed è proprio dall’Iraq devastato che l’autore di questo ipnotico libro portato in Italia da Utopia (e tradotto da Barbara Teresi) è partito per raggiungere la Finlandia, dove ha ottenuto lo status di rifugiato politico nel 2004.
Novantanove interviste
Hassan Blasim è un regista, poeta e scrittore iracheno, molto apprezzato all’estero, definito dal Guardian come “forse il più grande romanziere vivente in lingua araba”. Allah 99 (304 pagine, 20 euro) è il nome del blog dentro al quale l’autore ha raccolto tutto il materiale che poi è diventato un libro. 99 come i nomi attribuiti nel Corano ad Allah. 99 come le interviste che la voce narrante (il suo alter-ego) aveva progettato di realizzare tra il Medioriente e l’Europa, ascoltando la voce di altri rifugiati, di apolidi, di gente che è rimasta a Baghdad, di gente che ce l’ha fatta a superare i confini di filo spinato per perdersi chissà dove e di gente che ci ha lasciato la pelle. Sono stralci di vita che spesso hanno un epilogo tragico, con personaggi segnati dalla guerra e da un sistema corrotto, dalla povertà e dalla disperazione, che talvolta commuovono altre volte ispirano tenerezza perché non si sono lasciati abbattere dalla crudeltà di un destino avverso, e che di frequente riescono perfino a strappare un sorriso. Come Alì Transistor che la pazzia trasforma da abile riparatore di televisori in un geniale artigiano le cui installazioni elettroniche finiranno per acquisire un considerevole valore artistico.
Mosaico variopinto
La struttura del libro di Hassan Blasim è ibrida, originale, una sorte di mosaico variopinto che conferisce freschezza al testo. Il lettore potrà sentirsi un po’ disorientato all’inizio, ma presto verrà trascinato dalla corrente di Blasim. Non c’è una linea temporale a legare i vari capitoli, né un una apparente logica nell’alternanza. Blasim mette in relazione realtà e finzione, gioca col ritmo e la tensione che risulta crescente man mano che si va avanti, come se sullo sfondo delle narrazioni l’esplosione delle bombe si facesse paragrafo dopo paragrafo più intensa e minacciosa. Si avverte l’ansia che sale, la necessità di evadere o (in alternativa) di trovare qualcosa per cui vale la pena ancora di vivere, di non perdersi tra alcol, sesso fugace e droghe. Di non lasciarsi deprimere dagli eventi fino a rimetterci l’anima.
Cioran consigliava di non rivangare i ricordi, se vogliamo essere felici.
Contro l’intellighenzia
Hassan Blasim lavora su più livelli, cuce stralci di interviste, momenti di vita vissuta e considerazioni personali, inframezzando il tutto con i testi delle mail di una collega che racconta al protagonista – tra gli alti e bassi della vita – del suo lavoro di traduttrice e saggista, con riflessioni argute che si fanno presto critica letteraria e riguardano tanti protagonisti della scena della letteratura mondiale del Novecento, da Calvino a Cioran, passando per Mishima, Beckett o Bulgakov. Il punto più alto della corrispondenza tra i due però resta la denuncia amara e sferzante che l’autore, attraverso le parole dell’amica-letterata, rivolge all’intellighenzia irachena, a cui attribuisce non poche di quelle responsabilità che hanno portato allo sfacelo un paese che possiede un’anima nobile e una storia millenaria, che prima dell’avvento di Saddam Hussein (per certi versi perfino CON Saddam Hussein al potere) coltivava ancora l’arte e la cultura, lo studio, la ricerca e lo sviluppo. Blasim attacca e polverizza le contraddizioni e gli eccessi dei fanatici della religione islamica, i cui dogmi fasulli hanno reso arida quella che per secoli è stata l’area più vivace – dal punto di vista culturale – del pianeta. E non risparmia neppure il capitalismo occidentale, tanto cinico quanto miope.
Se avessi la disponibilità economica per poterlo fare, darei una mano a trasferire in Europa tutte le vittime che il capitalismo ha fatto in giro per il mondo.
I temi trattati da Hassan Blasim, con una sensibilità letteraria non comune, sono tanti, ma alla fine della lettura quello che emerge più di tutti è la condizione intima e perennemente incerta dello straniero, del rifugiato, la paura dell’ignoto, la disperazione di colui che ha dovuto lasciare la propria terra per sopravvivere e che, al di là del luogo che lo ha accolto, della rotta che ha percorso e del successo mancato/ottenuto, resterà sempre e comunque uno sradicato, un disadattato, un essere umano sopraffatto dalla malinconia, dalla stanchezza, dal senso di colpa e dell’incompiutezza.
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