Lo stupefacente romanzo postumo di Richard Wagamese, “Le stelle si spengono all’alba”, racconta la cultura dei nativi nordamericani attraverso la struggente vicenda di un padre e un figlio, che da questo padre non è stato allevato. Il loro viaggio assieme farà emergere felicità perdute, errori che non si possono riparare e una potentissima ricerca di un’identità che trascende i singoli…
Due anime, un padre e un figlio, con una stella nel cognome (Starlight) nell’ultimo giro di valzer di una stella spentasi troppo presto, poco più che sessantenne, Richard Wagamese, appuntatevi questo nome, è quello di uno scrittore fantastico. Indigeno del Canada, erede dei nativi nordamericani, alfiere di una letteratura che ci ha regalato, solo per citare titoli recenti e di grandissimo spessore, Non qui, non altrove (Frassinelli) di Tommy Orange (ne abbiamo scritto qui), I profeti di Robert Jones Jr. (ancora Frassinelli), e vari titoli dell’opera di Louise Erdrich, scrittrice pubblicata e lanciata in Italia da Feltrinelli. Richard Wagamese, in precedenza edito da Bompiani, con questo suo ultimo romanzo, pubblicato postumo, colpisce nel segno, e lo fa rimpiangere e piangere come faremmo con un vecchio caro amico. Lui è come Angie, “tessitrice di storie”, uno dei suoi personaggi che ha un rapporto eccelso con le storie: “Le tira fuori dal nulla. Le racconta per filo e per segno come se leggesse da un libro. Vedrai. La prima volta mi ha lasciato di stucco”. Vi lascerà di stucco.
Alcol e sensi di colpa
Le stelle si spengono all’alba (256 pagine, 17,50 euro) è stato tradotto da Nazzareno Mataldi ed è edito da La Nuova Frontiera, nuova freccia di un arco che può vantare Luiselli, Nettel, Cisneros e classici insuperabili come Saer, Benedetti, Rodoreda, Ibargüengoitia. Un ragazzo, Franklin, per cui “padre” è “solo una parola” – non pensiero, non sentimenti, non fiducia, non contrapposizione, non intesa, non eredità – è chiamato proprio da Eldon, suo padre, una stella distante nella sua vita, a compiere un viaggio estremo, l’ultimo del genitore, che gli chiede un piccolo grande aiuto: di origini Ojibwe (come Wagamese), non vuole aver vissuto invano, non vuole cioè essere sepolto come uno che non fa parte del suo popolo; in cambio darà a suo figlio pochissimo, o tantissimo, dipende dai punti di vista, un pugno di ricordi e storie, per rammentargli da dove viene e chi è, in certi casi per comprendere ex novo tanti pezzi della sua vita e della sua anima. Wagamese, attraverso queste due figure vivissime, allestisce un canto delle radici e dell’identità, potentissimo, una storia avvolgente. Il padre divorato dai sensi di colpa, sconfitto più volte dalla dipendenza dell’alcol, vomita addosso al figlio le colpe accumulate in una vita, l’amore per la madre del ragazzo, strappata a un altro uomo.
Un viaggio e abissi di poesia
Un viaggio a piedi e a cavallo, quello attraverso le foreste canadesi, nel nome del padre e del figlio (orfano di madre, cresciuto da un altro genitore, in una fattoria) capace di scavare abissi di poesia (“la poesia non è nient’altro che la risposta di un uomo al mondo intorno a lui”) nella mente di ogni lettore. Se per l’uno – dimesso, scheletrico, consunto dalla vita – non ci sono spiragli di salvezza o di perdono nei confronti di se stesso, deve accontentarsi dei ricordi di fugaci giorni gioiosi, al più giovane rimane una storia scolpita dalla povertà, dal disagio, dalla vergogna, dalla discriminazione – quella del padre che non l’ha cresciuto, restano le ferite di un popolo, la cultura della sua gente che non ha mai conosciuto, la forza della natura come punto fermo.
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