Nel romanzo di Lucio Leone, “La ferita”, ogni volta che il protagonista penetra nel corpo e nei ricordi di un suicida subisce un’alterazione. È l’alterazione della sofferenza, primo schiacciante impatto con la realtà matrigna
La ferita: uno squarcio aperto nelle carni dell’esistenza, l’unica, possibile entrata in un mondo ai più sconosciuto. Attraverso questo vulnus il protagonista del romanzo di Lucio Leone per Polidoro editore, La ferita (109 pagine, 14 euro), un uomo privo di caratteristiche somatiche, penetra nell’universo dei morti per suicidio e prova a salvarli.
È un’immersione la sua, e di conseguenza anche la nostra, in una nebbia collosa e gelida, attraverso un’ammorbante coperta di stupore e angoscia, un primo, schiacciante impatto con la realtà matrigna, il salto fatale nell’acqua polare del dolore mentale.
Ogni volta che il protagonista penetra nel corpo e nei ricordi di un suicida subisce un’alterazione. È l’alterazione della sofferenza, pietra fondante di vertiginose cattedrali capovolte, scale piantate nel nulla e imprevisti piani di coscienza. È l’istintiva percezione di una sorgente che ribolle lontana, madre del tempo e della consapevolezza, vero punto d’origine del pensiero umano.
Durante questi viaggi all’interno del corpo altrui, eppure del tutto extracorporei, il protagonista prova a salvare l’insalvabile, e per farlo entra in contatto con la parte invisibile della malattia, della depressione, alla ricerca di una definizione che si scopre inadeguata rispetto alla disperata realtà con cui si deve confrontare.
Una babele di parole andate in fumo
Il mondo interiore di un aspirante suicida è una babele di parole andate in fumo, di frammenti di carta lacerati, arrostiti dal tempo. Le parole che illustri scrittori tragicamente scomparsi hanno lasciato su quelle pagine strappate diventano monito e occasione per spingersi oltre il limite della sanità mentale, sanciscono una rottura, rappresentano il primo passo oltre la linea di sicurezza che ci tiene agganciati all’impalcatura della vita per come la conosciamo. Eppure ci accorgiamo che la sola cosa di cui ci importa è conoscere il motivo di quelle morti.
E forse una vera ragione non riusciamo a trovarla, pur calandoci nella tristezza altrui, pur guardando attraverso una moltitudine di occhi compromessi dal dolore. Comprendere sarebbe come partecipare ai segreti del cosmo. Lo sappiamo bene ora, l’abbiamo imparato saltando di vita in vita, di morte in morte: certi vuoti non possono essere colmati e, se non possono essere colmati, neppure vanno giudicati. Il momento in cui si inizia a comprendere è rischioso, irreversibile, paragonabile all’intersezione con una verità assoluta, il tocco atomico di una divinità aliena che ci folgora. L’indescrivibile esplosione di una supernova.
Un rivoltamento esistenziale
La ferità non è allora solo un punto di passaggio, ma anche il solco agricolo in cui inestirpabili alberi di pietra mettono radici e crescono a dismisura, invadendo ogni centimetro a disposizione, sottraendo ossigeno, creando le condizioni per un rivoltamento esistenziale in cui la speranza non è più contemplata.
Ramificazioni che strozzano, azzerando lo sguardo sul mondo sensibile, offrendo in cambio la dannazione di una consapevolezza estrema, opposta alla sopravvivenza, l’ineluttabile dono della morte.
Se possa esservi una salvezza non è dato saperlo, ma il tentativo della salvezza, quello sì. L’estremo abbraccio di chi, non potendo rassegnarsi alla perdita, tenta di conservare la vita attraverso ciò che tutto unisce: la parola, la scrittura.
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