Una scrittura determinante, abile nei sentimenti, infinitamente sospesa, quella di Juan Carlos Onetti ne “Gli addii”. In scena l’oste di un albergo e un forestiero solo apparentemente uguale a tanti altri, che ogni giorno ripete sempre gli stessi rituali, risvegliando nell’altro qualcosa di infinitamente sopito…
Un uomo da dietro il bancone del suo albergo osserva, stancamente, i clienti che passano nel suo locale. Ha una capacità innata: riesce a intuire, guardandoli, se sono qui per trascorrere i loro pomeriggi oppure per ricorrere alle cure del sanatorio che si trova in paese. Li vede arrivare “al negozio con le loro valigie e le loro diverse quote di vergogna e di speranza, d’ipocrisia e di sfida”. Riesce osservando i loro corpi e lo sguardo che possiedono a cogliere in loro un’ombra. È tra quei clienti che scorge un uomo, all’apparenza uguale a tanti altri, assorto, come in attesa, come destinato a vivere in modo sospeso una notizia terribile, che inavvertitamente attira la sua attenzione, “avrei voluto non aver visto dell’uomo, la prima volta che entrò nel negozio, nient’altro che le mani: lente, intimidite e goffe, con movimenti senza fiducia, affilate e non ancora scurite dal sole, quasi a voler chiedere scusa per il loro gestire disinteressato”. La sua incredulità, di cui quasi si colpevolizza, la sera stessa, quando resta solo, è dovuta alla sensazione di vuoto, una vertigine quasi, ciò che intuisce nel suo sguardo non promette niente di buono, l’ombra c’è che si tratti di una malattia o di un male di vivere, si intuisce che “aveva vissuto confidando nel suo corpo, era stato, in un certo senso, il suo corpo”. Ogni giorno quell’uomo giunge in paese e ripete, come un rituale, i gesti di sempre: “arrivava dopo pranzo, con il vestito che usava nella capitale, ostinato, conservando la sua aria di solitudine, ignorando i vortici di polvere, il caldo e il freddo, indifferente al benessere del suo corpo: riparandosi, dietro i vestiti, il cappello e le scarpe impolverate, dall’accettazione del fatto di essere malato e separato dagli altri”.
Più l’uomo lo osserva sedersi vicino alla vetrina di un caffè e sorseggiare la sua birra, più nell’oste accade qualcosa che ha i contorni dell’inverosimile, risveglia in lui qualcosa di infinitamente sopito.
Respiro rallentato, emozioni asimmetriche
A metà primavera, “sconcertati da un sole furtivo e privo di violenza, da nottate fresche, da piogge inutili”, la corrispondenza del forestiero si fa più insistente, ogni giorno si reca in paese per spedire e ritirare le buste che giungono da lontano, “erano due tipi di buste che gli importavano. Uno era scritto con una grafia di donna, blu, larga, tondeggiante, con le maiuscole simili a un segno musicale e le zeta accoppiate con due numeri tre”. Più la corrispondenza si fa insistente, più la frequenza con cui l’uomo resta in paese, colgono l’oste in una furibonda lotta interiore. Più i pettegolezzi riportati dall’infermiere e dalla sua fidanzata sono sempre più dettagliati, più l’uomo sembra non accorgersi più di nulla. La sola osservazione del forestiero, che cerca tra i suoi numerosi clienti, lo conduce verso una febbrile immedesimazione. Il vero addio che si profila ne Gli addii (109 pagine, 13 euro), romanzo di Juan Carlos Onetti (pubblicato da Sur, tradotto da Dario Puccini, prefazione di Chiara Valerio) è quello che sottintende la voce narrante. È nella sua capacità di cogliere il respiro rallentato, lo spostamento dell’aria provocato dai corpi, l’asimmetria delle emozioni, ciò che Onetti mette in scena è un antico gioco delle parti che l’oste pare confessare al lettore: “stavamo giocando io e lui – sebbene lui non lo sapesse o credesse di sapere un’altra cosa – durante quell’estate torrida il gioco della pietà e della protezione”. In questo gioco c’è tutta l’umana vulnerabilità di chi cerca di cogliere un’ultima occasione per riparare a torti e sbagli e di chi in questa occasione avverte i contorni di un’ebbrezza, quella di cui si veste la possibilità di viverla vestendo i panni altrui e nel calarsi nella parte dell’uomo che in qualche modo sembra volersi congedare dal mondo. E allora l’uomo morente può diventare tutto, l’introspezione mancata, il protagonista che si sottrae alla scena, l’ombra che si muove sulla pista da ballo e accarezza le volute di fumo fuoriuscite dalle labbra di una giovane donna.
Un dialogo silenzioso
È un dialogo silenzioso che unisce i due personaggi, doloroso ed estremamente corporeo; il forestiero pareva lottare “per farmi sparire, per cancellare la testimonianza di fallimento e disgrazia che io mi ostinavo a presentargli; e io che lottavo per la dubbia vittoria di convincerlo del fatto che era tutto vero, malattia, separazione, disfacimento”, è in questi frangenti che la sovrapposizione delle due vite sembra inevitabile, se l’uomo giunto dalla capitale, prende le misure per il suo addio, allo stesso modo l’oste, destinato a restare, si misura con la sua astensione, il suo addio, intenzionale o meno. L’addio alla possibilità di amare, che poi è vita stessa.
Un’ultima fortissima vertigine
Poi un giorno, scende dal treno una donna: “non ebbi bisogno di guardarla per vederle il viso, per convincermi che quel viso avrebbe affrontato, fino alla morte, in giorni luminosi e concitati, in notti simili a quella che stavamo attraversando, la sicura, fatua, illusoria vicinanza degli uomini” ed è lei a porre le basi per un’ultima fortissima vertigine. “Quel viso era stato creato per affrontare ciò che gli uomini rappresentavano e distinguevano; interminabilmente ansioso, incapace di vere sorprese, in grado di trasformare tutto immediatamente in memoria, in remota esperienza”. La donna è il simbolo della vita perduta che acquista i contorni fumosi della sala da ballo, della “follia speciale e tollerabile” che pare cogliere tutti con l’avvicinarsi della fine dell’anno. È in questa follia che apre una parentesi, di poche ore, in cui tutto può essere vissuto anche ciò che è andato perduto, apre un frangente di tempo e spazio che consente all’oste, esattamente come al forestiero, la possibilità di chiudere con il proprio passato una volta per tutte, combattendo con l’idea che “neanche le cose passate restavano immutabili” e con il rischio di trascinarsi un addio irrisolto. Diventa chiaro che alla presenza della donna il gioco dell’immedesimazione, il sovrapporsi delle storie induce l’oste ad una lucida verità: “li guardai come se non li avessi mai visti, convinto che avrei potuto comprenderli benissimo se li avessi affrontati per la prima volta. Era il commiato, ma lui era allegro, intimidito, imbarazzato e guardò me e l’infermiere con un rapido sorriso”, ma è così, come ci racconta: sconosciuti ai suoi occhi per poter provare per la prima volta sul suo corpo l’emozione ultima. All’uomo resta l’immaginazione. Una volta saputo calare il sipario, attribuendo a se stesso una dose di veridicità, l’uomo torna sui suoi passi: l’uomo morente chiude le imposte del villino, ascolta un’ultima volta le voci spegnersi nell’atrio e fa perdere le sue tracce. Nel corpo di colui che sosta dietro al bancone, non resta che osservare quella parte di sé svanire un’ultima volta.
La solitudine del ricordo
Ed è allora che l’addio, cui pensava Onetti, si moltiplica: diventa speranza e preoccupazione. È qui che l’oste getta la maschera e racconta, guardando il forestiero, il suo incontro lontano “avrebbero camminato sotto braccio molto meno in fretta della notte, ascoltando distratti lo strepito d’allegria e di disciplina che li avrebbe investiti da sinistra, proveniente dagli edifici nuovi fiammanti del campo d’aviazione. Forse avrebbero rammentato la camminata della prima notte, quando la ragazza era arrivata ed erano saliti in montagna fino alla casetta; forse avrebbero portato con loro, segreto e attivo ma non ancora disponibile come ricordo, il viaggio precedente, gli ovvi significati che potevano aggiungervi e sottrarvi”. Una scrittura determinante, abile nei sentimenti, infinitamente sospesa in un mondo che custodiamo dentro e che raramente può tornare a vivere, se non quando siamo costretti a dirci addio: “Continuai a vederla e ancora la ricordo così: superba e supplicante, china dalla parte del braccio che reggeva la valigia, non paziente ma priva della comprensione della pazienza, con gli occhi bassi, capace di generare con il suo sorriso l’appetito sufficiente per continuare a vivere, per raccontare a qualcuno, con un moto delle palpebre, con un atteggiarsi della testa, che questa disgrazia non aveva importanza, che le disgrazie servivano solo a segnare delle date, a separare e rendere intelligibili il principio e la fine delle numerose vite che percorriamo e viviamo”. Se l’addio ha la forma di un oggetto sfuggente, imprendibile, è la solitudine del ricordo a trasformare pienamente la memoria in un voluminoso dizionario che ospita la scansione lucida di tutti i vocaboli che ricostruiscono la vita.
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