Un tappeto volante tessuto con preziosi fili di seta che connettono trapassato e futuribile, reale e fantastico, cima e abisso, letizia e mestizia. Sono i racconti di Antonella Rizzo compresi nel volume “Il fazzoletto di stoffa”. Le donne protagoniste riscoprono le ali e si alzano in volo con l’energia della pienezza di significato del Fato
In un brano del 1986, Les hommes de ma vie, la cantante Dalida, l’anno prima della morte, riepilogava per astrazione i compagni decisivi del suo firmamento affettivo e artistico, resi dall’amore più grandi e solari pur in piena notte, concludendo di non averne nostalgia, perché nessuno dei nostri cari se ne va e non finisce nulla che sia stato. Lo stesso vale per le identificazioni che abbiamo indossato come abiti nel corso del tempo, personaggi credibili che regnano transitoriamente per poi cedere il trono agli eredi di sangue alla lettera, nel caso di specie le donne “rappresentate” da Antonella Rizzo, che potremmo definire una Anna Magnani della narrativa per carica umana e generosità di slancio. Le sue figure non comuni e fuori catalogo, del mito e dell’altare, di ieri e di oggi, sono tante maschere e icone del Principio Femminile, un gineceo nel quale trovar pace e ridere di sé, per citare una poesia della raccolta Plethora (2016), ove “anche la minaccia di una fine / e i peccati più profondi / gettati dentro il battistero / cadono condanne e rinascono virtù” (Alle mie donne).
Ricordi trasfigurati
Le eroine e le comparse dei versi e del teatro che hanno animato le opere precedenti si travasano e rinnovano nelle protagoniste dei racconti brevi de Il fazzoletto di stoffa, pubblicato da Kinetès Edizioni nella collana Imago Mentis. Un tappeto volante tessuto con preziosi fili di seta che connettono trapassato e futuribile, reale e fantastico, cima e abisso, letizia e mestizia. Il tono è sovente medianico, a tratti scrittura automatica da seduta spiritica, altre volte testimonianza di reincarnazione nei propri e altrui panni grazie a una re-visione a occhi chiusi, che trasfigura i ricordi privati e illumina dall’interno la creta della banalità quotidiana. Metamorfosi non per sfuggire a predatori esterni o demoni interni, bensì per evadere dall’ego soffocante o dal sé sbagliato, come direbbe Marina Cvetaeva.
Cortometraggi in sequenza
Molti romanzieri odierni offrono presunti spaccati di vita imbandendo la tavola dei lettori con cibi avariati, intossicazioni morbose, scabrosità da fiction televisiva. Ma sono esercizi di degrado linguistico, cattivo sangue su carta, moda caustica a misura di rete web, sotto quel vestitino niente di creativo. La messinscena di Antonella Rizzo si distingue a rovescio perché ispirata e di ampio respiro, indifferente all’indice di gradimento o alla classificazione. Le sue temerarie zattere di parole partono dall’isola di una personalità ipersensibile alle sfumature affettive, solcano il mare dell’incomunicabilità sociale cariche di un’antropologia culturale che rende il presente astorico, si tratti disotterranei della capitale, corsie di un ospedale o aule di tribunali slavi, facendo dialogare Venere e Freud alla ricerca della formula magica per bonificare idealmente l’amore e la femminilità. I cortometraggi in sequenza, un po’ quadri di un’esposizione per l’immediatezza pittorica, trasportano in un angolo rurale del Sud, su una spiaggia del litorale romano, sull’autobus nel traffico urbano, in un ufficio affollato di affanni burocratici, nel non luogo di deliqui religiosi, popolando di voci, odori, colori e dettagli sensoriali pagine quasi corporee. Eppure ovunque germogliano simboli, la terra è una solida base d’appoggio per il salto in un’altra dimensione, attraversando con agilità decenni, pareti, regioni, confini.
La condizione esistenziale e femminile
A dispetto delle apparenze i ritratti di Antonella Rizzo non sono istantanee di donne sull’orlo di crisi di nervi o coi nervi a pezzi, figlie della postmodernità frantumata e liquefatta; i loro contenuti non sono generati dalla sofferenza psichiatrica in primo o secondo piano, e ancor meno spiegati da circostanze ed esperienze vissute. Se l’eccentricità di maniera è un abbaglio, è una falsa pista anche la lettura diaristica o autobiografica, a maggior ragione perché su una scrittrice grava l’ipoteca del condizionamento uterino e ormonale, sentimentale e lunatico depressivo. Che siano ragazze, giovani, mature, sono sì farfalle impigliate in una ragnatela oggettiva, la fitta e inestricabile trama delle origini, dei legami parentali, delle relazioni, della posizione sociale. Ciò nonostante, tormentate dall’idea e ferite nel fisico, rose dal tarlo di una sindrome o di sbagli pagati a caro prezzo, allorquando l’orologio si ferma e tutto sembra consumato sino all’osso, riscoprono le ali e si alzano in volo con l’energia della pienezza di significato del Fato.
Un singolare senso di orientamento spazio-temporale distoglie l’autrice dall’attualità per intraprendere una discesa nel sottosuolo spirituale, ove attingere alla fonte castalia del vaticinio. Per non smarrirsi nel labirinto della psiche personale, i cui corridoi diventano via via più angusti, a guidare è una mente vigile e ricettiva, che apre orizzonti e mette a giorno zone d’ombra, si fa più ariosa e documentata, al pari di una biblioteca o un museo della storia dell’umanità. Perché è la conoscenza di sé priva di reticenze, una sorta di lucida follia, a garantire margini essenziali di libertà da dazi e debiti contratti nascendo in un corpo. Difatti sono testi che danno da pensare sulla condizione esistenziale e femminile in particolare, forniscono chiavi di lettura filosofica di fenomeni altrimenti ridotti ad attriti materiali, inducono a meditare nel silenzio di una radicale solitudine. La prova che l’elaborazione linguistica della propria fisionomia, tutt’altro che semplice sfogo o esibizionismo, aiuta a mitridatizzarsi contro i veleni della visceralità, degli umori passeggeri e dei complessi inconsci. Non ultimo, può far recuperare innocenza nella disperazione e nella rassegnazione.
L’ispirazione nella crisi
In chi scrive per mandato interiore, le difficoltà o carenze del percorso individuale forniscono il pretesto per mettere a frutto un talento, dare alla luce una vocazione. Dice Keith Chesterton nel racconto Le stelle volanti: “Come sempre succede, la fantasia si fece tanto più sbrigliata quanto più modeste erano le possibilità a sua disposizione”. E giunti a un certo punto di consapevolezza si smette di chiedersi, parafrasando Dickinson, perché la gioia sia elargita a gocce e il dolore a diluvi, si accetta che i torti subìti e inflitti non siano riparabili. Inoltre il dubbio su chi siamo fornisce un paradossale ancoraggio nel naufragio, nelle notti buie senza luna e stelle, la sensazione di irrealtà rende possibile il trasferimento in un mondo parallelo. Così l’ispirazione nasce nella crisi, quando perder la testa equivale a salvarla e a sognare è l’anima non il cervello.
Un barlume di eterno
Nelle lettere sotto dettatura di Antonella Rizzo il tipo psicosomatico, il temperamento e la qualità spirituale rivelano che siamo già stati, parti di noi provengono da secoli e millenni fa, emanando la loro vivida influenza sulla nostra coscienza e quella degli altri. Ed è altresì vero che saremo nell’avvenire, qualcosa tornerà, un barlume di eterno. D’altronde siamo a tutti gli effetti sismografi sensibili alle invisibili presenze che ci abitano e ci circondano, i “magneti che ci attraggono per farci simili o ci respingono rendendoci diversi” di cui parla Virginia Woolf. Di conseguenza l’immaginario dell’artista è la sua vita più autentica, narrando e poetando si getta almeno per poco la zavorra dell’organismo e della biochimica, le meschinità della psicologia spicciola e dei meccanismi neurologici, l’appartenenza costrittiva a una famiglia o a una comunità. E il bisogno umano di assoluto fa della scrittura l’estremo tentativo di superare la scissione di bene e male, salubre e patogeno, divino e demonico, in definitiva vivere e morire.
Ecco perché chiudendo il libro sembra di scorgere l’autrice che saluta da una banchina di stazione, agitando il bianco fazzoletto del destino di separazione, un diafano bagliore di conforto nel viaggio terreno a termine. E si può credere di sentirla sussurrare, come Dalida nella canzone ricordata in principio: “Finalmente oggi, io, la donna di nessuno”.
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