Una storia del selvaggio West dal respiro universale. Lat Evans, il giovane mandriano protagonista di “Queste mille colline di A. B. Guthrie, è l’incarnazione dell’ambiguità che ci contraddistingue, è il luogo in cui cresce l’impossibilità di mantenere una purezza originale
Che le terre del selvaggio West siano da sempre considerate un banco di prova estremo per l’essere umano non è di certo un mistero. Come A. B. Guthrie però, già vincitore del premio Pulitzer nel 1950 con Il sentiero del West, riesca a trasformare il canto di quelle terre lontane in un’opera universale che, anche a distanza di ottant’anni, continua ad abbracciarci tutti, quello sì che rimane un mistero, un luminoso enigma dell’arte.
L’incessante tentativo di cavarsela
Queste mille colline (332 pagine, 19 euro), ripubblicato da Mattioli1885 nella splendida traduzione del sempre eccellente Nicola Manuppelli, è il romanzo che chiude la trilogia degli Evans, iniziata con Il grande cielo e portata avanti con Il sentiero del West; ed è anche un libro perfetto, che si compie indipendentemente da qualsiasi cosa l’abbia preceduto e che racconta l’incessante tentativo di cavarsela, di venire a patti con un destino che ci accomuna tutti pur prestandosi ad un raccolto diverso per ognuno di noi, offrendoci la possibilità di scegliere, oscillanti tra quel che pare essere bene e quel che si dice essere male. E Lat Evans, il giovane mandriano in cerca di fortuna su cui la storia insiste, è l’esatta incarnazione dell’ambiguità che ci contraddistingue, è il luogo in cui cresce l’impossibilità di mantenere una purezza originale – che solo la terra, così primitiva e selvaggia, così fortemente vitale, può restituirci.
Un esploratore dell’ignoto
Lat, che in fin dei conti è un esploratore dell’ignoto, ci rappresenta tutti. Poco più che adolescente entra in conflitto con le storture e le incapacità dei genitori – la madre mite e soggiogata, il padre autoritario e inaccessibile – e con violenza se ne discosta, partendo per le lontane terre del Montana, dove verrà notato per le sue abilità nell’addomesticazione dei cavalli (in Lat ancora si percepisce l’eco di una lingua universale, punto di unione di tutto il creato).
Il personaggio che Guthrie mette in scena è un potente catalizzatore di situazioni, si presta al rischio così come si presta all’amore, è l’affascinante terreno vergine da cui tutti partiamo e che le imprevedibili esperienze della vita plasmano, è la presa di coscienza che non si possa restare fedeli a se stessi pur tendendo ad una certa coerenza morale, è il punto di passaggio tra verità ed apparenza, è la destinazione umana che, per quanto cruenta, si apre alla possibilità di una bellezza che Guthrie rovescia sulla pagina sotto forma di stelle fredde, di fuochi febbrili, di capelli color del grano e angeli furenti.
Smarrire l’innocenza per vivere
La bellezza del mondo, l’idea a cui istintivamente l’uomo aspira, non può che essere maledetta e tendere imboscate, corrompendoci e contemporaneamente sfidandoci a preservarci immacolati, sicuri dentro le nostre categorie di giudizio, obbligandoci a guardare mentre ci trasformiamo nell’oggetto della nostra condanna, nella diversità su cui, infine, inferiamo, nella detestabile arroganza in cui scivoliamo, nella desertificazione del più fecondo dei sentimenti, nascosto, come un tesoro prezioso, nell’indifeso abbraccio di una prostituta innamorata.
Il romanzo di Guthrie è allora un miracolo che si compie sulla traballante via dell’uomo, una galoppata in perenne equilibrio tra quel che si odia e quel che si ama, la presa di coscienza che, per vivere, ci si debba calare nel fango e imbrattare la camicia, smarrire la propria innocenza ed esercitare il diritto all’oblio per sopportare il peso di una tale perdita.
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