Opera seconda di Alberto Caviglia, “Alla fine lui muore” è… uno sdoganamento ufficiale dello spoiler. Tra gag e trovate geniali, riflettori su uno scrittore alle prese col secondo romanzo, sulla sua realtà così iperbolica da apparire troppo tragica o veramente comica. Lo stile irridente diventa l’altare su cui si celebra un sacrificio d’obbedienza al senso di se stessi, a quello che può auto-rivelarsi solo dopo essersi spogliati degli orpelli dell’ovvio e dell’abitudinario… Una nuova puntata della rubrica Area 22
Dopo il geniale Olocaustico (ne abbiamo scritto qui e qui), siamo già al secondo libro di Alberto Caviglia: Alla fine lui muore, Giuntina, 14 euro e 158 pagine che vanno via in un battibaleno, in un istante, che può essere quello fatale o coincidere con un nuovo inizio.
Chi avrà letto il primo libro si troverà, con questo, ad un rapporto più intimo con l’Autore, ad un maggiore coinvolgimento con i suoi stati emotivi più prossimi. Tanto più che egli non fa nulla, proprio nulla, per sottintendere una certa sovrapponibilità tra lui e il suo protagonista, tale Duccio Contini. Anzi, se possibile, ci dà indizi fin dalle prime pagine, descrivendolo come uno scrittore esordiente che, alle prese col suo secondo romanzo, comincia a fare i conti con qualcosa che lo porterà a rileggere la verità della sua stessa vita. Non è difficile immaginare (essendo questo il secondo romanzo di Caviglia) che la sovrapposizione sia, se non assoluta, quanto meno voluta; quasi che si voglia dire che, in fin dei conti, ciò che è successo a Contini è accaduto (o sarebbe potuto accadere, o potrebbe accadere) anche a lui. In realtà ci sono anche altri indizi, e sarebbe giusto – a questo punto – conoscere più da vicino le zie e i parenti più prossimi di Caviglia (a meno che non siano anche loro partiti per qualche lungo viaggio).
La trovata
Ma, appunto. Cosa è successo a Contini?
Beh, alla fine lui muore. Questo ci sembra assodato, almeno dal titolo che – nel miglior stile di questo Autore divertente e dissacrante – registriamo come il primo vero grande sdoganamento ufficiale dello spoiler (mi arrendo, ormai, all’uso dell’inglese).
Il titolo, che potrebbe dunque e a tutti gli effetti essere considerato come una spudorata anticipazione (no, non mi arrendo all’inglese!), viene però consegnato anche e soprattutto come una chiave di interpretazione, un elemento che via via, nel corpo del testo, assumerà la sua importanza… per così dire… epigrafica.
Certo è che chi legge il titolo desidera, quanto meno, sapere di chi si parli e come costui muoia, e in quali circostanze! Dal punto di vista editoriale ritengo perciò che la trovata sia geniale per attirare prima e far godere poi i fortunatissimi lettori. È una trappola giustificata dal seguito, decisamente!
L’identificazione… episodica
Caviglia, che sembra perfettamente conscio delle proprietà specifiche della sua scrittura, e della sua epifania olocaustica, non delude nessuno di coloro che, in questa seconda opera, desiderano rileggere quei suoi tipici periodi a flusso di coscienza, dove i pensieri del protagonista vengono fuori dalle pagine con la stessa efficacia di una scena da film! Beh, lui è regista e sceneggiatore, non dimentichiamolo. E se il primo libro manifestava chiaramente il desiderio che ne potesse venir fuori un film (che noi attendiamo trepidanti!), per questo secondo romanzo si potrebbe senz’altro pensare ad una serie! Come non immaginare, puntata dopo puntata (come pagina dopo pagina), quello stesso tragicomico Duccio che, rimbalzando qua e là tra le pareti del suo mondo in crisi, pensa e ripensa, progetta e scombina? E come non immaginare che i suoi pensieri ci arrivino dalla voce fuori campo, voce che noi assoceremmo immediatamente alle sue espressioni?!
Per essere più chiaro.
Avete mai visto La stanza del figlio, di Nanni Moretti? Ecco. Lì l’attore impersona uno psicoterapeuta alle prese con due tipi di dramma: quello dei suoi assistiti e il proprio. Se c’è una cosa sommamente comica, all’interno di quel film così forte e violento, è l’essenza stessa della comicità che si erge sulla condizione umana con la sua strabordante prepotenza! Perché la comicità non guarda in faccia nessuno e quando tu cadi e ti fai male lei ti insegue per riderti dietro; normale che ti ci arrabbi e ti rimetti in piedi. Ecco. Lì nel film non hanno prezzo le scene in cui lui, mentre psicoanalizza i suoi pazienti, pensa le cose che tutti noi – magari – pensiamo quando facciamo qualcosa: pensieri drammatici e comici nella loro più pura essenza, perché svincolati dalla necessità della condivisione pubblica.
Caviglia riproduce e ripresenta meravigliosamente bene questo stato di cose. La voce di Duccio riesci a sentirla, a immaginarla nei rimbombi del suo stesso cervello.
Inevitabile quindi l’identificazione episodica con il protagonista: sfido chiunque a non essersi ritrovato a condividere con lui alcune situazioni o riflessioni o perplessità o sfighe varie ed eventuali. Non è possibile che un tale personaggio – che davvero può essere considerato lì come elemento speculare a quello del lettore – lasci qualcuno asetticamente distante dalla sua realtà, opportunamente iperbolica così da apparire troppo tragica o, appunto, veramente comica.
Risate… consapevoli
Di fatto, quale che sia la cosa che succede a Duccio (e che ovviamente io non dirò), ciò che si descrive con una leggerezza mostruosamente ironica è uno stato depressivo in piena regola, di quelli che solo l’ironia può descrivere e interrompere. L’autoironia del depresso è il suo primo farmaco contro la morte che egli stesso cerca; è un’istanza di estrema libertà non dal male che affligge e schiaccia, ma da quel se stesso che – fino alla fine – rimarrà sempre l’ultimo avversario con cui fare i conti.
Innumerabili le gag e le trovate geniali, le costruzioni metaforiche, le immagini impensabili e destabilizzanti che l’Autore ti mette a disposizione perché tu possa riderne e rifletterne.
Davvero, come sempre meno sovente accade, mi sono trovato più d’una volta a ridere di gusto mentre leggevo, e non di quelle risate a basso costo che sono solo i fortunatissimi esiti del lavoro di un pagliaccio professionista; no, erano risate, come dire… consapevoli. Le risate di chi, rileggendo una situazione nella risoluzione parossistica di Caviglia pensa (ridendo): Accidenti, è proprio vero! oppure: No, questo l’avevo pensato anch’io! o ancora: Ma si può fare davvero questa cosa?! Perché la farò sicuramente!, e cose del genere. Ridi e ti confronti. Ridi e pensi che in effetti, forse, a te non è ancora successo ciò che è successo a Duccio, e quindi c’è il rischio che la tua vita stia andando avanti per inerzia, senza il giusto motore che non è, e mai può essere, quello dell’abitudine o delle facili certezze.
Tutto è rimescolato
Tutto in discussione, dunque!
Dagli assunti anagrafico-ideologici ai dogmi ultraterreni delle grandi religioni rivelate, dal valore sociale della famiglia, che fa a pugni col valore morale dei suoi membri (protagonista compreso), al bisogno unilateralmente necessario dell’accoppiamento come status sociale di funzionamento umano. Tutto, proprio tutto, viene rimescolato e passato al vaglio della più intelligente risata, anche l’apparente inutilità escatologica dei castori!
Vai, vai, prendi la tua risata, proprio quella che ami, e offrimela in olocaustico! Ehm… in olocausto! Scusate, rimembranze portanti! Ma succede proprio questo: lo stile irridente, mordace, buffo del libro diventa l’altare su cui si celebra un sacrificio d’obbedienza al senso di se stessi, a quello che può auto-rivelarsi solo dopo essersi spogliati degli orpelli dell’ovvio e dell’abitudinario.
Così, mentre la farmacia diventa salumeria, il tempio dell’altro diventa rifugio. Non si può non accorgersi, da certe trovate che lì per lì stupiscono per la loro sbeffeggiante risoluzione, come Caviglia ce la metta tutta perché, nel non dare nulla per scontato, si ritrovino cose belle e grandi da condividere, cose da uomini e da umani, che fanno vivere e non fanno morire.
Toccante, proprio quando meno te lo aspetti, tutta l’evoluzione di una delle linee narrative portanti, che è quella dello strano rapporto tra il protagonista e il signore anziano del cantiere che, nell’economia della storia, assume l’alto ruolo dello shomer apocalittico, della sentinella alla quale si chiede quanto manchi al mattino. Geniale davvero! E incredibilmente bello! E già che ci siete andatevi ad ascoltare pure la canzone di Guccini, inverecondi!
Il vecchietto in questione diventa l’espressione più temporalmente azzeccata per indicare la fine di qualcosa, o il suo fine, il suo completamento, ed è un ruolo così ben congegnato che rimane attivo su tre precise dimensioni: quella materiale (il cantiere), quella formale (la storia), quella personale (sia del vecchietto stesso, sia anche del protagonista).
A proposito di zie…
Ora, non vorrei mai che queste cose che dico risultino, alle orecchie dell’Autore, come delle percezioni che possano convincerlo della sua bravura. Non voglio diventare l’inconsapevole meccanismo del suo processo di disillusione; né far parte del novero di quei quattro gatti che scrivono recensioni lusinghiere su un blog seguito principalmente dalle loro zie (e daje con le zie!). Comunque, sì, accidenti… le mie zie leggono LuciaLibri, cacchio!
Ovviamente, queste ultime affermazioni vogliono allinearsi a certe espressioni del libro, talmente pregne di auto-esperienza autoriale da non passare inosservate neanche per un istante. Così come non passano inosservate (e come potrebbero?) le due grandi liste su ciò per cui conviene morire e ciò per cui conviene vivere: lì davvero si raggiunge, con il lettore, la più intima forma di condivisione perché sai, tu che scrivi e tu che leggi, che l’altro si ritroverà in molte delle cose lì enumerate (a proposito, poiché a questo punto intendo seriamente intervistare Caviglia dal vivo, lo avverto che so perfettamente cosa portargli per renderlo felice!); ma il climax del genio comico lo si raggiunge nel capitolo dedicato agli epitaffi! Lì, veramente, mi è quasi venuta voglia di morire! Capirete perché.
… e di tempo
Insomma, non un libro degno di attenzione, tutt’altro. Romanzetto senza troppe pretese, scritto male e con un pessimo senso del gusto, dal turpiloquio facile perché fa tendenza e con quelle fastidiosissime scenette che vogliono rallegrarti a tutti i costi; degno successore del suo precursore, con tutti i miglioramenti dell’opera seconda, e quindi con tutti i peggioramenti possibili (sfiga compresa, come se non ce ne fosse già abbastanza); scusa letteraria perché un autore possa parlare di se stesso e mai, assolutamente mai, mettere il lettore nelle condizioni di riflettere. Che noia mortale, che flop assoluto. Sono contento che alla fine lui muoia.
E quindi, alla fine questo sacrificio si compie?
Beh, ciò che sappiamo di sicuro è che Caviglia è ancora vivo, e quindi rimaniamo in fervida attesa, letteraria e cinematografica!
Nel frattempo che arrivi la terza opera, leggetevi il libro, va’… Che avete perso solo tempo. E il tempo… oh, sì! Il tempo è prezioso!
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