Un borgo sommerso dalla neve, e punteggiato di sangue, e due preadolescenti pronti a metter piede nella vita adulta, nel secondo romanzo di Marco Peano, “Morsi”. Pagine caratterizzate da un candore che non ha nulla di magico, fra silenzi e spietatezza, tra gli abissi della fine dell’infanzia e dei sogni. L’innocenza viene meno e inizia un nuovo tempo di distruzione…
Un paesino delle Valli piemontesi stretto nella morsa di un’ondata di gelo eccezionale, un Natale che svanisce, risucchiato da un incubo che non sembra essere totalmente reale, ma che annichilisce e terrorizza. Al centro, la storia di due preadolescenti per i quali la vita cambierà per sempre. Che cos’è Morsi (192 pagine, 17 euro), secondo romanzo di Marco Peano appena uscito per Bompiani? Difficile classificare un libro che ripropone, rivisitandolo e omaggiandolo di echi letterari, il passaggio chiave dall’infanzia all’età adulta, trasportandolo nella profonda, grigia e passatista provincia italiana e dipingendolo di immagini forti, a tratti allucinate.
La fine dell’innocenza
È Natale nelle Valli di Lanzo, a Borgo Loreto, dove Sonia, seconda media, resta bloccata a casa della nonna per le Feste a causa di una tempesta di neve e gelo fuori dall’ordinario. Siamo nel 1996, un anno agli sgoccioli che tuttavia non passerà senza danni, finendo per rappresentare uno spartiacque decisivo per la giovane vita della protagonista e di quello che diventerà il suo destro, Teo, vicino di casa ed ex compagno di classe. Fatti inquietanti e sanguinari iniziano a punteggiare di rosso sangue un borgo sommerso dalla neve. È un candore che non ha nulla di magico, ma che attutisce anzi le spiegazioni, sopisce la razionalità e apre a un inferno fatto di silenzi, di spietatezza.
Un incubo, un autentico sogno angosciante che lacera l’infanzia e ne sancisce la fine netta, radicale, acuita da un Natale inesistente, dove il Babbo ridanciano non è che un padre travestito attaccato al bicchiere, e la Befana non porta dolci, ma è una masca, una strega, in piemontese, che nasconde segreti indicibili.
È l’inverno in cui imparare gli addii e i primi baci, in cui armarsi per difendere un sarcofago fragile, svuotato di tutte le sicurezze simboliche dell’infanzia. Ed è insieme un inverno degli anni Novanta, di portamonete e giochi pericolosi, di banchi scolastici e merendine, di Lady D e di cabine e schede telefoniche, cose di un’epoca che sembra ormai remota, ma che con il potere dei dettagli riaffiora ancora viva tra le pagine di Peano.
Sul filo della bocca
Un semiologo noterebbe, pagina dopo pagina, un fil rouge da seguire come un investigatore, per arrivare a mettere insieme tanti puntini capaci di ricostruire un’immagine, o per lo meno un’idea. In gergo specialistico si chiama isotopia, ed è una linea di senso coerente. Ce ne sono diverse, in Morsi, ma la più evidente, a livello figurativo, cioè delle immagini, è quella che parte dal titolo: il morso, la bocca, l’oralità. Mentre il paese è affetto da una sorta di infezione autodistruttiva intimamente legata ai morsi, Sonia digrigna i denti di notte, Teo soffre di una bulimia che lo induce a mangiare e mangiare, entrambi sperimentano il primo bacio e sanno cosa significa il silenzio, non poter dare voce ai propri pensieri. Dai morsi alla capacità – alla possibilità – di parlare, e di raccontare la sequenza sembra offerta sul bianco candido della neve.
Tutta Lanzo è affetta da una sorta di renitenza a ricordare – e raccontare – i fatti di quel terribile inverno del 1996. Il vento gelido ha calato una cortina di silenzio sui fatti minacciosi e angoscianti: la gente, passata l’onda d’urto, ha preferito dimenticare. Ma la lama del terrore si abbatte sui protagonisti che, al contrario degli adulti, stanno attraversando quella soglia densa di simbologia e orrore, di ambiguità e minacce rappresentata dalla fine dell’infanzia, la fine dei sogni. È un passaggio in una zona oscura e intima, “quella a stretto contatto con la loro anima”, una bocca infernale, quasi, che Peano (nella foto di Stefano Stocco) frequenta con maestria. In questo abisso che morde tutto smette di essere innocente e inizia un nuovo tempo fatto di distruzione e sangue. Una realtà insensata, in cui imparare a sopravvivere coltivando – maturando, per cause di forza maggiore – la consapevolezza di essere individui singoli, dotati di volontà e personalità.
Ci salvano le parole
Come tutti gli incubi, la vicenda di Morsi non pretende spiegazione, ma mescola piani simbolici e riferimenti che possono aiutare a interpretarla, a esaminarne aspetti e trarne forse riflessioni. Sorretto da una trovata narrativa che intreccia i capitoli e che, svelandosi verso il finale, chiarirà alcune dinamiche aprendo nuovi interrogativi (cosa fa, del resto, un buon romanzo, se non scatenare interrogativi?), Morsi ha un messaggio chiaro che delinea fin dall’incipit, e che pone al centro di tutto le parole.
Il libro si apre sui sogni confusi di Sonia, che nel sonno vede parole, ne scorge frammenti poco chiari che non riesce a mettere insieme. Solo al culmine adrenalinico del romanzo le parole scaturiranno, salvifiche, chiare nella loro oscenità, adulte, annichilendo Sonia e lasciandola momentaneamente muta. Una bocca che si apre e poi si chiude. Un morso alla vita.
Le parole, salvano solo le parole: questo capisce la protagonista e questo suggerisce l’autore, accompagnandoci in questa vicenda grottesca come un’infanzia che sfuma e si scopre adolescente. “Conoscere il nome delle cose significa salvarsi. Le parole salvano sempre. Erano l’unica arma di Sonia Ala, e lei a disposizione aveva quelle giuste”. Parlo o scrivo?, si domanda una confusa e anziana voce narrante che non coglie più la demarcazione tra i due mondi, e che riporta così l’oralità del racconto al centro di tutto. Bocca che morde, che si sfama, che uccide e ama, e che racconta, creando storie. Le parole sono la forza autentica di un romanzo che esplora l’indicibile: la redenzione e la salvezza arrivano proprio da qui, dal racconto.
È possibile ordinare questo e altri libri presso Dadabio, qui i contatti