“Il quaderno dell’amore perduto” è un romanzo precedente al bestseller di Valerie Perrin, “Cambiare l’acqua ai fiori”. Si intrecciano le vicende di un’infermiera, un’anziana paziente, un uomo deportato ai tempi della seconda guerra mondiale. Non solo una bellissima storia di resistenza e amore e una storia, parallela, di resistenza e opposizione all’amore. Ma, soprattutto, un insegnamento: sciogliersi…
L’amore è una forma di resistenza. Una resistenza soprattutto all’oblio dettato dalla sabbia del tempo che scorre, scorre. Sottile, silenziosa, a poco a poco può portare via con sé, scivolando in fessure sottili, la densità di quel che è stato.
C’è chi, quella sabbia, decide di lasciarla andare. Chi non sa come trattenerla, faticando con la sola forza delle mani. Justine invece sa trattenerla, e lo fa con la forza di inchiostro e carta.
Quei ricordi (altrui) da salvare
I ricordi da salvare non sono i suoi: ne ha ancora pochi. È una giovane infermiera.
La sua è una lotta contro il tempo per salvare i ricordi della sua paziente speciale, un’anziana ormai assente, con gli occhi persi nel vuoto, con la mente sempre su una spiaggia.
In quella spiaggia, distesa sulla sabbia scontante che si affaccia sul mediterraneo, c’è anche il suo Lucien.
Il tempo, come sabbia – la stessa sabbia su cui l’anziana Héléne immagina di distendersi con il suo “non marito” – vorrebbe sottrarre a tutti il ricordo e la potenza di un grande amore. Ma non ha fatto i conti – il tempo, l’oblio – con l’ostinazione. Con la resistenza. Con l’amore. Perché alla fine anche l’amore è una forma di resistenza.
Lo sa bene Justine, protagonista del romanzo di Valérie Perrin che precede Cambiare l’acqua ai fiori: Il quaderno dell’amore perduto (348 pagine, 14,90 euro), pubblicato da Nord nella traduzione di Giuseppe Maugeri.
Perdersi e continuare a vivere
Ed è infatti da un atto di resistenza al nazifascismo che l’amore di Héléne inizia a essere minato. Il suo Lucien: deportato. Alla fine della Seconda Grande Guerra entrambi, ormai lontani, distanti, persi, ricostruiscono – sempre resistendo – le proprie vite.
Ma restano in attesa. Resistono all’attesa. Resistono ai ricordi che il tempo, le violenze fisiche e la deportazione hanno inevitabilmente minato.
Con Il quaderno dell’amore perduto Valerie Perrin non narra semplicemente una grande e bellissima storia d’amore. Entra, infatti, nelle corde dell’anima della protagonista, che dalle storie importanti vuole fuggire.
Ritrae un altro tipo di resistenza. Quella all’impegno, ai sentimenti, al mettersi faccia a faccia con le proprie paure. Perché alla fine anche proteggersi da una vita che può ferire è una forma di resistenza.
Il rifugio di un amore platanico
La vita di Justine non è stata facile. È orfana. Si immerge negli straordinari, a lavoro, per regalare un futuro migliore a chi ha visto crescere sotto il suo stesso tetto. Resistere a chi la ama, per paura di essere ferita, e rifugiarsi un amore platonico, sembra l’unica via per salvarsi, per non tornare a soffrire l’abbandono (già vissuto in tenera età). Scappare, fuggire via. Resistere.
No, Valerie Perrin non narra semplicemente una bellissima storia di resistenza e amore e una storia, parallela, di resistenza e opposizione all’amore.
Perrin, in queste pagine, ci insegna a scioglierci. A lasciarci andare, se davvero qualcosa o qualcuno può scaldarci.
E, soprattutto, ci racconta una grande, bellissima leggenda – che potrebbe essere vera. “Sulla terra ci sono tanti uccelli quanti sono gli esseri umani. Ma l’amore è quando più persone ne hanno uno in comune”.
Héléne ci credeva, a questa leggenda. Héléne aveva un gabbiano. Héléne non l’ha mai abbandonato, nemmeno quando è sparito per anni: sapeva, che prima o poi, lo avrebbe visto tornare, e non da solo. Héléne lo sapeva, e non ha mai rinunciato a crederci. Ha resistito. Ha sempre guardato lassù, nel cielo.
Héléne aveva ragione.
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