Il filosofo parigino, campione di tolleranza, ne “Il caso Calas” si scaglia contro l’ignoranza e la prepotenza di chi ha condannato un uomo per l’uccisione del figlio e chiede una riabilitazione post-mortem. Per Voltaire una decisione figlia del sonno della ragione e dei pregiudizi contro una famiglia di fede protestante…
Avere fra le mani un testo immortale di Voltaire, ovvero Il caso Calas con il Trattato sulla tolleranza (353 pagine, 25 euro) e testi inediti a cura di Domenico Felice, pubblicato da Marietti 1820, è un’emozione che difficilmente può essere comunicata attraverso le scarne parole di una recensione. Occorre immaginare lo stupore fanciullo di chi scrive e che, per mestiere e soprattutto per passione, ha la fortuna di insegnare storia e filosofia.
Questa prof. – oggi gli studenti amano chiamarci così, come se accorciando il titolo che ci designa ci sentissero più vicini a loro, e a me non dispiace per nulla – ha ritrovato, fra le pagine di un testo dal valore inestimabile, l’entusiasmo degli anni universitari, anni gravidi di sogni, speranze e passioni viscerali.
Come Harry Potter, anzi più precisamente come Hermione Granger, armata di giratempo ho riportato indietro le lancette dell’orologio a quando il mio destino era ancora in gran parte in fieri e come tutti i giovani pensavo che nothing is impossibile.
Voltaire, ovvero della tolleranza
Voltaire, pseudonimo di Francois-Marie Arouet, figura di spicco dell’Illuminismo, è da sempre universalmente ammirato per la modernità e l’incisività del concetto di tolleranza, di cui è diventato l’emblema eterno, anche se non è esattamente fra i miei filosofi del cuore (poco male, non credo che se ne crucci d’altra parte).
Per me corpo e anima vibrante dell’Illuminismo sono superbamente rappresentati dal supremo fra tutti i filosofi, Immanuel Kant, a cui dobbiamo il motto che compendia egregiamente lo spirito e il senso ultimo della cultura illuminista: Sapere aude – sappi servirti della tua propria intelligenza – che a tutt’oggi è un monito ad utilizzare criticamente e proficuamente le proprie risorse razionali.
Nutro altresì un’ammirazione reverenziale per Voltaire e l’ostinazione con cui ha sposato la causa di Jean Calas, che certamente non era la prima vittima, e purtroppo non sarà neanche l’ultima, di un’intolleranza intrisa di ignoranza bigotta.
Il filosofo parigino si sente profondamente coinvolto dalla sorte dell’intera famiglia Calas, il cui destino diviene emblematico di cosa possa accadere durante il sonno dello spirito, quando il fanatismo copre e giustifica ogni nefandezza come compiuta in nome di Dio. Quello che si compie verso Jean Calas infatti Voltaire lo definisce un sacrilegio, e cerca quindi di convincere affermati avvocati al Consiglio del re dell’innocenza di questo disgraziato padre di famiglia, accusato di una delle colpe più infamanti di cui un essere umano possa mai essere incriminato, ovvero l’uccisione del figlio Marc-Antoine, che invece, oltre ogni ragionevole dubbio, ha deciso di porre fine volontariamente alla sua giovane vita.
“La giustizia non resti muta quanto è stata cieca”
Voltaire esorta i giudici a riaprire il caso per riabilitare la memoria del povero Calas, condannato al supplizio della ruota, ferocemente doloroso perché prolunga sadicamente un atroce tormento, oltre ogni possibilità di umana sopportazione.
La condanna a morte di Jean Calas fa tremare di indignazione e paura le coscienze, non ottenebrate dalla nebbia fosca dell’ignoranza unita alla prepotenza, di tutti coloro che vengono in qualche modo a sapere dei fatti occorsi a quell’anima sventurata. Diviene palese il pericolo di incappare, seppur innocenti in maniera del tutto evidente, nelle maglie farraginose della giustizia. Accresce in chi analizza gli eventi la consapevolezza della facilità con cui si possa essere condannati senza prove sull’onda della volontà popolare, che giudica ed emette sentenze sospinta da un sentimento di furore religioso, che in realtà di autenticamente religioso ha solo l’etichetta. La folla che accerchia la casa dei Calas ha in odio quella famiglia perché protestante, ed è questa l’unica verità incontrovertibile. La stessa massa informe e giudicante richiederà poi e otterrà che l’unico vero martire della fede che ritroviamo in questa storia terribile, Jean Calas, venga post mortem riabilitato.
“Essere ignoranti della propria ignoranza è la malattia dell’ignoranza”
Impossibile smentire quest’asserzione di Amos Alcott, padre fra l’atro di Louise May Alcott, indimenticabile autrice di una delle mie primissime letture: Piccole donne e fondatore di Fruitlands, una comunità utopica che si ispirava all’Accademia platonica.
La filosofia greca, di cui Platone per me è l’esponente più significativo (lo ammetto, anche più del maestro di color che sanno, Aristotele), rappresenta fin dagli albori un faro che illumina lo spirito di tutti gli esseri umani che cercano senza pregiudizi la verità.
Voltaire nel Trattato richiama esplicitamente l’esempio di Atene dove occorrevano cinquanta voti per emettere una condanna a morte, a differenza della Francia a lui contemporanea in cui una manciata di voti bastava a sancire una sentenza tanto aspra ed efferata. Il filosofo parigino opera un raffronto importante anche con l’Inghilterra, che ammira grandemente, dove tutte le confessioni religiose godono di una tolleranza autentica e non di facciata, che rende meno frequenti casi come quello di Jean Calas, il cui ricordo Voltaire ha voluto rendere immortale affinché diventasse un monito in aeternum contro ogni tipo di fanatismo.
Desidero chiudere questa mia breve disamina di un’opera imperitura come Il trattato sulla tolleranza attraverso le parole di Chi ha reso veramente universale, al di là di ogni confessione religiosa e di tutte le opinioni riguardo la fede, il concetto di Amore e di fratellanza che unisce indistintamente tutti gli esseri umani: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
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