Il mondo all’alba del ventesimo secolo e un disincantato eroe dalle strambe e straordinarie prodezze. Ecco cosa c’è nelle pagine de “Il digiunatore”, nuovo romanzo di Enzo Fileno Carabba, ispirato a una storia talmente vera da apparire inverosimile, quella di Giovanni Succi. Annullare volontà, voluttà e bisogni fu l’affermazione prepotente della sua esistenza. Tra gloria e oblio…
Occorre un cambio di prospettiva accostandosi a un romanzo che rompe gli schemi qual è Il Digiunatore (252 pagine, 16 euro), edito da Ponte alle Grazie, di Enzo Fileno Carabba. L’autore imbastisce un’epopea moderna, una sorta di profana agiografia di un antieroe, Giovanni Succi, che sin dalle prime pagine di quest’opera si erge solitario sull’altura delle sue strambe ma straordinarie prodezze. Lo sguardo smagato e disincantato della società contemporanea vede nel Succi, il digiunatore, una figura dai tratti quasi sfuggenti, un giocoliere senza birilli, che cerca onore e gloria in imprese il cui senso appare incomprensibile.
Il mondo però, in piena epoca romantica, poteva ancora permettersi il lusso di credere ai funamboli della vita, a chi cercava il proprio nous, la ragione ordinatrice dell’esistenza, in maniera non convenzionale, unendo fascino esotico e imprese strampalate, avvolto in un alone di mistero dal sapore quasi torbido.
Profeta laico
Il protagonista del romanzo, che affonda le sue radici in una storia talmente vera da apparire inverosimile, richiama in maniera niente affatto celata, anzi così scoperta da apparire impudente, la figura di Gesù. Succi presentava se stesso dichiaratamente come una sorta di profeta laico che ripercorreva le orme di figure grandiose, santi, mistici, fino ad arrivare a Cristo, emblema perfetto ed inarrivabile di un digiuno di ben altra natura, dove il vuoto della materia fa spazio all’Infinito. L’intento di Succi però non è l’estasi mistica, bensì il punto di convergenza della sua anima con i suoi desideri, l’annullamento di ogni volontà e voluttà. L’assenza, l’annichilimento dei bisogni diventa affermazione prepotente di esistenza.
Il senso del libro di Carabba è racchiuso proprio nel divario, che il digiunatore tenta di oltrepassare, tra il finito e l’infinito, perché l’essere umano per sua natura è mancante di qualcosa e tende contemporaneamente verso una perfezione irraggiungibile. Questa tensione perenne, quando è fine a se stessa, rischia di diventare motivo di struggimento senza possibilità di consolazione.
Il sabato, preludio di vita, presagio di morte
Il digiuno, perpetrato in maniera compulsiva e ineluttabile da Giovanni Succi, rappresenta per lui una sorta di Nirvana, più vicino alla concezione di Schopenhauer che a quella della filosofia buddista, un’eliminazione momentanea ma totale di ogni volontà possibile, finito il quale ripiomba nella martellante inquietudine della mancanza di senso.
Enzo Fileno Carabba evoca, non certamente in maniera casuale, l’immenso e a me molto caro Leopardi, la cui opera trasuda questa continua ricerca dell’uomo di qualsivoglia feticcio possa allontanare l’ombra della morte e la paura dell’abisso del nulla che risucchia ogni cosa, come è straordinariamente rappresentato in quel capolavoro amatissimo dalla mia generazione che è La storia infinita. Il digiunatore riproduce costantemente Il sabato del villaggio, nel tentativo di scongiurare il sopraggiungere del giorno di festa, che porta con sé l’angoscia del domani carico di ansie e di domande, spesso destinate a cadere nel vuoto.
Lo spirito del leone
Di ritorno dall’Africa Giovanni Succi ama ripetere di essere pervaso dallo spirito del leone che infiamma i suoi sensi e ogni fibra del suo corpo.
Caratteristica peculiare dei prolungati digiuni del Succi è infatti l’aumento dell’appetito sessuale, un’amplificazione sensoriale che accende il corpo del digiunatore in un’esaltazione parossistica della sua virilità. La fame erotica è l’unico istinto che sopravvive prepotentemente allo spegnimento dei sensi provocato dall’astinenza alimentare. A differenza del digiuno dei mistici che purifica il desiderio, quello osservato da Giovanni Succi lo conferma nella sua mascolinità che pare, ma poco importa, si esprimesse senza confini ben delineati su più fronti, quasi fosse un’energia incontenibile.
Qualcuno volò sul nido del cuculo
Il digiunatore trova, come può accadere a coloro che non riescono ad avere una precisa collocazione nella società e si perdono inseguendo orizzonti improbabili, il proprio porto sicuro nei meandri paradossalmente confortanti dei padiglioni di un manicomio. Fra tutta quella insensatezza il Succi ritrova un centro, perché la paura può diventare un rifugio, un nido, per chi non riesce a mantenersi in equilibrio sopra la follia, come recita il verso di una canzone che per la sua struggente ma soave malinconicità è trasmutata in poesia. Il digiunatore morirà anni dopo, avendo conosciuto la gloria del successo e la tristezza per essere stato dimenticato da un mondo che non lo comprendeva più, un mondo che si affacciava all’alba del ventesimo secolo credendo che il progresso lo avrebbe salvato dalla miseria. Il resto, come si suol dire, è storia.
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