In “C’ero anch’io su quel treno” Giovanni Rinaldi ricostruisce e racconta storie di accoglienza per tracciare una geografia della solidarietà tra regioni di Italia nel secondo dopoguerra, esperienza valida oggi per una rinnovata narrazione dei rapporti tra i territori
Il 23 marzo del 1950 il mio paese natale nel Sud Italia è teatro di uno scontro sociale durissimo, una rivolta di braccianti finita nel sangue. Non si tratta di un caso isolato, tanti gli episodi simili nel Meridione alla fine della Seconda guerra mondiale. A quella rivolta seguono arresti, processi, condanne e l’inevitabile smembramento di famiglie il più delle volte con bambini piccoli. Il problema della gestione di questi piccini ufficialmente non orfani, ma di fatto abbandonati a se stessi diventa nel giro di pochi giorni un’emergenza sociale; per quanto generoso fosse il paese e affidabile la rete, c’è la fame, quella che non permette alle famiglie un pasto completo al giorno, immaginarsi farsi carico di altre bocche. Ma. Ma la protesta dei braccianti ha in quel momento una connotazione politica, sono comunisti e sindacalisti a portare la bandiera della rivendicazione dei diritti e quella bandiera in quel momento è condivisa perché condivisi sono gli ideali di solidarietà e giustizia sociale. Le notizie viaggiano attraverso questa rete che si allarga e si organizza, non si ferma al paese o alla provincia, valica le regioni e arriva lì dove c’è un’organizzazione e qualche possibilità in più. Le donne dell’UDI (Unione Donne Italiane) si mobilitano dalle Marche e dall’Emilia Romagna, qualche volta in collaborazione con i compagni del PCI, spesso da sole, per organizzare treni che accompagnino i bambini verso famiglie in grado di assicurare loro pasti regolari, un tetto sicuro, la frequenza scolastica solo per qualche mese o se necessario per anni.
Giovanni Rinaldi (nella foto tratta dal suo sito ufficiale www.giorinaldi.com) racconta queste storie, narrazioni marginali di una Italia che sembra lontana nel tempo e nei valori che la percorrono. A partire dalle storie del Tavoliere si apre per Rinaldi una sorta di vaso di Pandora di storie simili che risalgono anche più indietro nel tempo, fino al 1946, i giorni immediatamente dopo la fine del conflitto. Altri paesi, altre città hanno problemi a gestire bambini, da altre zone di Italia gli stessi gruppi sociali si mobilitano per l’accoglienza. Si creano ponti tra il Lazio e la Liguria, la Campania, la Calabria e l’Emilia-Romagna. Attraverso una ricerca attenta, fatta di ascolto e di contatti, Rinaldi ricostruisce una mappa di individui che hanno abitato luoghi diversi della nostra penisola e scambiato esperienze e cultura.
Narrazione individuale chiave per la storia collettiva
C’ero anch’io su quel treno (320 pagine, 17,50 euro), edito da Solferino, raccoglie queste storie riallacciando la narrazione dove I treni della Felicità (2009) l’aveva lasciata, ricomponendo i frammenti, ampliando la comunità di bambini, ormai anziani testimoni, che dal Sud si sono mossi verso il Centro e il Nord Italia ignari di cosa loro attendesse, spesso spaventati da racconti dettati da diffidenza.
Ogni testimonianza può mettere in crisi teoremi o ipotesi, può aprire nuove strade.
“Innombrables sont les récits du monde” scrive Roland Barthes (1966) e innumerevoli sono le testimonianze che Rinaldi raccoglie utilizzando un approccio antropologico fondato su presupposti storici. Entrato in contatto con il protagonista, raccoglie informazioni volte a verificare come il viaggio del bambino e della bambina si sia svolto, quale organizzazione ne sia stata promotrice, il contesto di provenienza (Napoli, Cassino, San Severo). Arriva poi l’ascolto libero; Rinaldi non intervista ma si pone nella condizione di accogliere il racconto in modo che il protagonista sia libero di descrivere secondo il proprio sentire e ricostruire il ricordo. Ritorna in modo libero il metodo delle narrative, che come approfondito da Barbara Czarniawska (Narratives in Social Science Research, Sage 2004) attraverso la racconta di racconti in prima persona, Rinaldi contribuisce alla ricostruzione di un quadro storico che oltre agli eventi si amplia del portato di valori dai cui gli eventi stessi sono stati generati che a loro volta hanno generato. Sono sempre i protagonisti a raccontare, la voce dello scrittore serve a presentare, introdurre fatti e persone. La raccolta delle tantissime testimonianze (nel libro se ne contano circa venticinque) permette di creare un quadro non solo delle realtà individuali e famigliari, ma della composizione sociale del paese nell’immediato Dopoguerra.
Il filo conduttore del mio impegno è stato forse proprio questo: essere mediatore, animatore di ricordi, sollecitatore di relazioni, traduttore di storie dalle lingue non scritte, scrittore delle parole dette ma mai ascoltate.
Rinaldi ha il merito non restare intrappolato nella vischiosità del racconto, non adotta mai il punto di vista del soggetto, ma trasferisce al lettore il bagaglio di valori del protagonista perché il lettore sia libero di scegliere come trattare tale materiale. Lo scrittore/ricercatore è veicolo di idee e storie. E questa non è un’operazione semplice, qui sta la vera bravura del ricercatore che pur selezionando le storie riferisce in modo imparziale. Rinaldi sembra ridare dignità a quella identità popolare perduta nei meandri in un mondo che non dà spazio a narrazioni “altre” rispetto alla dominante; restituisce dignità a storie perdute, dimenticate dalla maggioranza spesso per operazioni di marketing politico volte a cancellare quanto alcuni hanno realizzato. Rinaldi torna alla tradizione del racconto orale che tramanda significati, concetti, storie e storia.
Solidarietà chiave dei rapporti tra le regioni italiane
Oltre a questi, Rinaldi ha anche un altro merito, quello di non cadere nella trappola dello stereotipo Nord-Sud. Raccontare la storia di bambini meridionali poveri, denutriti e a stento vestiti accolti da benestanti famiglie settentrionali è operazione che richiede una delicata attenzione. Facile sarebbe cedere alla narrazione salvifica del Nord, all’appropriazione di un modello sociale migliore al Nord rispetto ad un Sud che non sa sfruttare le proprie risorse (in fondo la guerra c’era stata ovunque e la Linea Gotica correva ben al di sopra del Tavoliere). Questo non si verifica. Nessuno salva nessuno ma in una dialettica sociale aperta ed inclusiva si porge una mano per favorire uno scambio che sia equo tra chi è accolto e chi accoglie. Quando la situazione migliora i bambini sono riportati alle famiglie di origine, in alcuni casi il ritorno è solo temporaneo, nella maggior parte i bambini hanno vissuto la possibilità di superare un momento difficile grazie ad un aiuto. Le famiglie che accolgono non sottraggono affetti ma creano ponti con le famiglie di origine.
La conclusione del libro sembra suggerire che attraverso questi treni si sia creato un legame tra parti di Italia che prima non comunicavano, che parlavano concretamente lingue diverse (gli ormai anziani protagonisti di come fosse difficile capire una lingua che non fosse il dialetto). Io non so quanto questo sia vero in termini generali, troppo diviso è ancora il paese ma il libro mi ha aperto alla conoscenza di una storia che merita di essere raccontata e non dimenticata, una storia carica di generosità e onestà raccontata in modo rigoroso e sobrio senza cedere a morbosità e retorica ideologica.
Queste storie sembrano essere sempre ricordate come “storie di donne”, anche all’interno del Partito Comunista. Come se fossero storie meno politiche.
Un ultimo mio commento doveroso è al ruolo che le donne attraverso UDI hanno in questa vicenda. Le compagne in quel periodo storico danno risposte concrete ad una serie di questioni e di problemi; dove i partiti temporeggiano discutendo le donne dell’UDI agiscono risolvendo. Succede anche quando su spinta di alcune di loro si fanno promotrici di questi treni, organizzano, cercano risorse, mobilitano sezioni e riescono a trovare una sistemazione ad ogni bambina e bambino bisognosi di accudimento. Ringrazio Rinaldi per aver raccontato la forza di queste donne che spesso si sono contrapposte allo strisciante patriarcato sovvertendo la gerarchia dei partiti e assumendosi in prima persona responsabilità enormi. Troppo spesso i movimenti femministi sono stati tacciati di egoismo e visione limitata, Rinaldi raccontando queste storie restituisce merito e onore alle donne dell’UDI e del PCI, e oggi più che mai le donne hanno bisogno del riconoscimento del ruolo assunto nella Storia.
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