Canto familiare in quattro voci, romanzo criminale, riflessione sulle periferie: ecco cos’è il nuovo romanzo di Davide Camarrone, “Zen al quadrato”. Tra una domanda di fondo (Quanto i suoi abitanti hanno amato Palermo?) e l’introspezione dei suoi quattro attori principali, segnati da segreti dolorosi, tradimenti e solitudine
Un viaggio al termine di Palermo, attraverso una storia di sradicati, di anime disincantate, umane, molto umane, e frantumate al loro interno, segnate da una ferita che non si può rimarginare e che a turno tutte evocano. Chiusa la parentesi lontano dalla casa madre, la Sellerio, a sette anni di distanza da Lampaduza, che aveva rappresentato la prima svolta del proprio percorso di scrittore, Davide Camarrone propone un’opera di rara compiutezza stilistica, figlia di uno scritto d’occasione, uno dei libri collettivi della collana La Memoria che celebravano il cinquantenario della casa editrice palermitana per eccellenza. Non sperimentale e “difficile” come Tempesta (ne abbiamo scritto qui), opera pubblicata meritoriamente da Corrimano, ma che comunque segna un definitivo e autorevole posizionamento dell’autore palermitano lontano dal mainstream. E vicino al cuore della letteratura, quella che non ha niente da insegnare, ma che sa interrogare, quella che aiuta a capire il mondo, a comprenderne anche solo uno spicchio, fosse pure in una determinata parentesi temporale.
Una città in cerca di autori
Dovlatov è il nume tutelare del più recente romanzo di Davide Camarrone, Zen al quadrato (221 pagine, 14 euro). Una delle colonne del catalogo dei libri blu, ironico e disperato, intimo e politico, scrittore da collezionare, letto uno dei suoi volumi, acquistare tutti gli altri è un riflesso quasi incondizionato. Camarrone imbastisce un libro a quattro voci, quattro sguardi dello stesso nucleo familiare, quattro punti di vista sugli stessi eventi, quattro anime alle prese con uno stravolgimento esistenziale, il trasferimento pressoché forzato dal quartiere Castello San Pietro, rione fra il centro storico e il mare, allo Zen 2 (“si vede che uno solo non bastava”), periferia di cemento. Il romanzo criminale che affiora a tratti dalle pagine si intreccia a una compiuta riflessione sulle periferie (non un tema isolato fra gli scrittori palermitani, anche recentemente, si pensi alla trilogia, prossima quadrilogia, di Dario Levantino), nel caso specifico specchio di una città, che ha bisogno di romanzi che sappiano incarnarne l’anima, specie quella contemporanea. Il Gattopardo, la cui centralità nessuno mette in discussione, ha oltre mezzo secolo e può ancora fare domande e ottenere risposte, ma non in eterno, le risposte. L’auspicio è che il solco entro cui si muove Camarrone – e nelle forme più diverse, non solo narrative ma anche saggistiche, Fulvio Abbate, Domenico Conoscenti, Giorgio Vasta, Vanessa Ambrosecchio, Roberto Alajmo – riprenda ancora fiato e sia rinvigorito, anche da nuovi interpreti.
Periferia e memoria? Distrutte
La periferia, più che rappresentativa dell’intera città, nel romanzo di Camarrone, sembra il nocciolo di una disperante consapevolezza del fallimento. Metafora di una memoria distrutta, sventrata come interi pezzi di città nel corso dei secoli, non solo di qualche decennio fa. Eppure certe scene sono terribilmente attuali e non confinate solo agli angoli più estremi della metropoli.
Qui non ci sono piazze. Tra un casermone e un altro, distese di fango e rifiuti, piazzali di sterpaglie altissime e pietrame, cassonetti bruciati, vecchi materassi e rimorchi di camion pieni di macerie, vetri e mobili in frantumi.
Sui muri, vecchie scritte di vernice nera.
Insulae, li chiamano, i casermoni: isole su un mare di munnizza.
Quella ritratta è una Palermo in declino nonostante alcuni squarci di luce e che conduce dritti a una domanda tutt’altro che impudente. Cioè se e quanto i suoi abitanti (e i suoi politici) abbiano amato Palermo, se e quanto siano disposti a farlo davvero, a salvarla dall’infelicità. In questo romanzo si racconta di una città lontana nel tempo, “vecchia” di alcuni decenni, ma certe dinamiche non sono del tutto cambiate.
Segreti e solitudini
Ma non è solo un romanzo civile di valore, Zen al quadrato, è un organismo narrativo innervato di introspezione. La memoria di Palermo in questo romanzo è materia vivissima, non è solo epopea storica, ma aderisce a mondi personali e soggettivi. Il lettore potrà fare i conti con la sensibilità dell’adolescente Filippo, con la speranza e il senso della lotta di sua madre Lucia, con l’arrendevolezza e la rassegnazione di suo padre Nicola, con la malinconia e i cattivi ricordi di nonna Rosalia. Ognuno di loro cova segreti, tradimenti, angoli nascosti della propria esistenza, pezzi di vita inconfessati, forse inconfessabili, turbolenti, passati e presenti. Tutti loro sanno bene cosa è la solitudine, Camarrone evoca l’inesauribile tema della solitudine, per citare proprio Dovlatov e il suo Il giornale invisibile (“Non posso dirlo delle altre cose, ma la solitudine non mi manca mai. I soldi, ad esempio, li esaurisco presto, ma la solitudine mai…”), una cui frase è l’esergo di Zen al quadrato.
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