Ariosto secondo Cavazzoni, il cortigiano vuol la libertà

In libreria, con la cura di Ermanno Cavazzoni, “Le satire” di Ludovico Ariosto, opera della piena maturità. Ariosto rinnova, con la raffinatezza di uno stile letterario ironico e sublime, un genere secolare, scandagliando vizi e virtù degli uomini. Una nuova edizione che, grazie alla curatela, ci ricorda l’importanza della demistificazione in ogni epoca

Ha senso riproporre dopo cinque secoli un’opera letteraria sulla quale la critica ha detto tutto o quasi confermando nel tempo di essere essa l’opera più amata dopo il capolavoro di quello che va riconosciuto come il più grande poeta del rinascimento italiano? La risposta è affermativa se si tratta delle Satire, opera dell’autore del più celebre poema cavalleresco Orlando Furioso, uno dei testi più influenti di tutta la storia della letteratura di un autore, Ludovico Ariosto, fra i più influenti della sua epoca.

Prefazione in lingua simil-ariostesca

Il senso di questa scelta è accresciuto se a curarne questa nuova edizione (127 pagine, 16 euro) per Il Saggiatore è uno come Ermanno Cavazzoni, scrittore a noi contemporaneo del tutto sui generis, docente universitario, già sceneggiatore di Federico Fellini, da sempre affascinato dalla poetica della follia per quanto di fantastico vi è in essa, basti ricordare alcuni suoi titoli, fra cui Il poema dei lunatici, dal quale è stato tratto il film La voce della luna, appunto del regista di Gambettola, e il più recente Poema dei dementi, uno che quindi non può che amare le creature bizzarre e folli e le varie creature e creazioni fantastiche come quelle del poema ariostesco sul quale Cavazzoni non esiterà a formulare il suo giudizio: «La più grande gloria delle letteratura italiana». Un amore per il poema che evidentemente condivide con un altro scrittore emiliano come lui, quel Riccardo Bacchelli al quale nell’anno della sua morte (1985) fu intitolata la legge che prevede l’erogazione di un assegno straordinario quale vitalizio per quei cittadini che si siano distinti nel mondo della cultura, ma versino in condizioni d’indigenza, Bacchelli che affermerà di aver letto il Furioso una volta l’anno durante tutta la sua vita, se si considera che lo scrittore è scomparso all’età di anni 94 da valutare che lo abbia letto 89 volte escludendo i primi anni dell’infanzia. Chissà quante volte lo avrà letto Cavazzoni, il quale in ossequio e a testimonianza del suo amore per il grande poeta e drammaturgo ferrarese del rinascimento scriverà l’introduzione al presente volume in una lingua simil-ariostesca che vale già il suo prezzo e che ne è in qualche modo la parafrasi.

La musicalità delle terzine

Un’opera, Le satire, da leggere più volte per coglierne l’intrinseca musicalità delle terzine rimate in endecasillabi, di non facile decifrabilità, si tratta di una lingua lontana da noi cinque secoli, un italiano volgarizzato ancora intriso di latinismi, lingua e tradizione sulla quale l’Ariosto aveva svolto il suo apprendistato e le sue prime prove letterarie a partire dai Carmina.

Il loro periodo di composizione va dal 1517 al 1524, epoca della piena maturità del poeta. Periodo questo che segnò la rottura con il cardinale Ippolito d’Este fino al ritorno dal suo commissariato ducale in Garfagnana iniziato nel 1522. Di questo gravoso impegno parlerà nella Satira IV, definendo quell’aspro territorio un Rincrescevol labirinto, nel quale è stato inviato con pressanti e gravose responsabilità dal governo estense a sedare liti, occuparsi di furti e omicidi, lamentando da quelle terre inospitali la mancanza della sua ispirazione poetica «che molti giorni resta che non canta» verseggiando quasi sconsolato:

Dica ogniun come vuole, e siagli aviso/quel che gli par: in somma ti confesso/che qui perduto ho il canto, il gioco, il riso. (Satira IV)

ma soprattutto piangendo la lontananza dall’amata Alessandra Benucci, già congiunta Strozzi e rimasta vedova nel 1515, quando Ludovico avrebbe potuto averla in moglie, cosa che non farà per questioni patrimoniali legate alla di lei eredità, la sposerà in forma segreta probabilmente tra il 1527 e il 1528:

vedendomi lontan cento e più miglia,/e da neve, alpe, selve e fiumi escluso/da chi tien del mio cor sola la briglia. (Satira IV)  

 

Autobiografia con ironia

Le satire restituiscono infatti con il filtro dell’ironia le sue vicende autobiografiche, permettendogli più che altrove di esprimere i sentimenti di disagio che provava presso la corte estense a seguito della sua malgrado intrapresa carica diplomatica con gli ostacoli che essa pone alla libertà dell’individuo, all’aspirazione ad una vita quieta e appartata, lontana dalle ambizioni e dalle invidie della realtà di corte, un anelito alla difesa della propria libertà e della propria “quiete” che è il presupposto fondamentale dell’esercizio poetico e dell’obbedienza alla propria vocazione. Scriverà nella Satira III dedicata al cugino Annibale Malaguzzi nella quale parlerà del suo lavoro al servizio del duca e del suo rifiuto della carriera ecclesiastica: 

Meglio è star nella solita quiete,/che provar se gli è ver che qualunque erge/Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.

E nella stessa:

 Chi vuole andare a torno a torno vada:/vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna,/a me piace abitar la mia contrada. (Satira III)

 

Contro corte, matrimonio e poeti

Una vera rivendicazione della propria dignità e della gelosa difesa del raccoglimento del suo lavoro con giudizi non certo lusinghieri disseminati lungo tutti i sette componimenti circa la vita di corte, la vita matrimoniale, la quinta satira ne è un piccolo e spassoso compendio e finanche sui poeti (Satira VI) ma soprattutto sul clero, in particolare sulla “fumosa” Roma papale ove i sovrani pontifici sembrano più che dediti all’esercizio spirituale orientati ai piaceri della carne e alle gozzoviglie gastronomiche, fino a lanciarsi durante i loro luculliani banchetti dei polli arrosto: 

Non è il suo studio né in Matteo né in Marco,/ma specula e contempla a far la spesa/sì, che il troppo tirar non spessi l’arco.  (Satira II)

Non è un caso che vengano pubblicate per la prima volta nel 1543 in forma clandestina e in forma ufficiale l’anno successivo, dopo la morte di Ariosto. Il tono è alcune volte più leggero, altre volte più aggressivo e risentito. Pur discostandosene, si scorgono echi della tradizione delle satire latine di Giovenale e Orazio, quest’ultimo soprattutto per l’inserzione degli apologhi (come la favola della zucca nella settima satira o le favole della gazza e della ruota di fortuna nella terza) e per la scelta della forma epistolare, non disdegnando una sua dimensione fiabesca, la stessa del Furioso che con il velo dell’ironia che contraddistingue il poema segna una scissione rispetto all’epica cavalleresca medievale, dipingendo un mondo frenetico dove tutti sembrano rincorrersi in una costante agitazione circa le missioni da compiere e le loro amorose inchieste, i loro “errori” che li trascinano da un capo all’altro di un mondo pieno di animali fantastici, ruscelli rigogliosi, armigeri innamorati, castelli come quello di Atlante ove gli illusi prigionieri inseguono perennemente e vanamente l’oggetto della loro felicità, e più in là ancora sulla luna, alla ricerca del senno perduto o di un bene che sembra rimanere collocato sempre “più in là” trascinandoli in un intreccio fittissimo di imprevisti e di avventure quale è il poema ariostesco.

Tra aulico e realistico

Le vicende delle satire viceversa hanno uno sguardo basso, sono tramite un linguaggio e la scelta di un ritmo prosastico lontano dalla solennità dell’ottava aurea del Furioso, in un misto fra aulico e realistico e un tono colloquiale e pratico, un’implicita denuncia della follia degli uomini che inseguono la fama, il successo e la ricchezza, il tutto trasfuso dalla vis comica del poeta relativamente alle proprie vicende autobiografiche. Esemplare è in tal senso la Satira I del 1517 l’anno successivo alla prima edizione dell’Orlando Furioso: Ariosto deciderà di non seguire il suo benefattore, il cardinale Ippolito in Ungheria. Accamperà le più esilaranti quando anche in alcuni casi verosimili scuse: patirebbe il freddo polare, essendo quelle terre appena al di sotto del Polo Nord; trarrebbe quindi nocumento dal doversene stare a stretto contatto con gli altri intorno a stufe in stanze surriscaldate e con l’aria viziata da rutti, scoregge e dall’odore di piedi e di ascelle; sarebbe costretto a bere il loro vinaccio e a mangiare le loro pietanze pepate e ulceranti. Questa sua decisione non è che l’espressione del suo anelito alla libertà dai vincoli imposti all’intellettuale cortigiano: 

Ognun tenga la sua, questa è la mia:/se a parder s’ha la libertà, non stimo/il più ricco capel che in Roma sia. (Satira II) 

A seguito del suo mancato trasferimento, dopo quindici anni di servizio presso la corte estense, Ariosto si troverà praticamente licenziato e nella necessità di provvedere a nuove fonti di guadagno, evento che si riverbera con note amare e di disillusione soprattutto nelle “gionte”, la costante opera di revisione sul Furioso, il poema di una vita dell’Ariosto, tutti echi che si trovano infatti negli ultimi cinque canti del poema dopo l’edizione definitiva del 1532 e che proprio la corrosiva ironia delle satire esprimono al meglio.

L’apprendistato e la vocazione

La vocazione satirica di Ariosto ha trovato espressione già nel suo periodo di apprendistato giovanile, con quelle certe sue “baie” andate perdute e delle quali parlerà il figlio Virginio, esercitazioni di una letteratura canzonatoria e polemica. Una tradizione, quella satirica che Ariosto ha saputo attualizzare al proprio tempo e alle proprie vicende autobiografiche, uno sguardo basso, in qualche modo cronachistico, un piano pubblico che rinnova e amplia con la raffinatezza di uno stile letterario ironico e sublime un genere secolare, che non finirà di affascinare e documentare, scandagliando vizi e virtù degli uomini e che il merito di questa nuova edizione grazie al suo curatore riporta a noi ricordandoci l’importanza della demistificazione in ogni epoca, sfidandoci magari nell’individuazione nel panorama letterario attuale dei più degni interpreti del genere, e sicuramente Ermanno Cavazzoni qualche nome in tal senso saprebbe farcelo, ma questo è un altro discorso, anzi sono altri autori.

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