Scrivere di suicidio non è mai semplice, Lucio Leone ci riesce in modo nuovo e originale ne “La ferita”: pagine che scorrono veloci, sebbene ogni singola parola sia pesata e scritta con attenzione chirurgica, e rappresentino un’esperienza tutt’altro che scontata…
Le letture più affascinanti, quelle che non finiscono nel dimenticatoio come titoli evocativi di ombre, riguardano i libri che ci catapultano fuori dalle stanze rivestite di parole in cui ci rifugiamo avvolti dall’ingannevole coltre delle conoscenze consolidate, per condurci verso orizzonti a cui avevamo timore di rivolgere lo sguardo.
Niente è come sembra
La Ferita (109 pagine, 14 euro) di Lucio Leone, pubblicato da Alessandro Polidoro Editore (109 pagine per 14 euro) di Lucio Leone, potrebbe adattarsi a molteplici definizioni, tranne quella di costituire un’esperienza scontata. Nulla, dalla prima all’ultima pagina di quest’opera scritta con attenzione chirurgica al peso delle singole parole, può lasciare indifferente il lettore.
Divorando con avidità ogni goccia traboccante di significato che esala quasi sanguinante da queste pagine, ho accostato, quasi immediatamente, La Ferita ad un capolavoro cinematografico relativamente recente: La ragazza nella nebbia, non per il contenuto che viaggia su altri binari, ma per l’atmosfera plumbea, di apparente immobilità, che caratterizza entrambe le opere, e per il finale assolutamente inaspettato che coglie, lettore e spettatore, come una doccia gelata in pieno inverno. Il cuore per un attimo smette di battere, il respiro si ferma e si vorrebbe quasi non aver compreso, perché è come assistere alla Crocifissione senza Resurrezione. Il cielo si squarcia e ad attenderci è il nulla.
Come Alice nel paese della…perdita delle certezze
Occorre uscire da se stessi, abbassarsi fino quasi a scomparire, come Alice in una delle sue trasformazioni, per riuscire a vivere pienamente l’esperienza destabilizzante rappresentata da questo libro, in cui i rimandi filosofici sono costanti ma mai troppo evidenti. L’autore ci sfida a riconoscerli per ricomporre, secondo le nostre personali categorie di senso, l’enigma esistenziale racchiuso fra le pagine de “La Ferita”, che scorrono veloci come il fiume evocato da Eraclito. Un attimo siamo e l’attimo dopo non siamo più, siamo altro, scompariamo tra i flutti per ricomparire altrove, diversi eppure uguali, in un eterno ritorno di noi stessi che ci riavvolge stravolgendo continuamente i nostri piani, costringendoci all’eterna fatica di Sisifo.
Squarciando il velo di Maya
Il perno centrale attorno cui ruota il libro è un tema che tocca corde emotive profonde e ci costringe a guardare negli occhi le nostre paure più celate ed ancestrali, ovvero il suicidio. Scrivere di un argomento così delicato ed insieme potente, che scardina tutte le porte delle prigioni dorate che gli uomini costruiscono attorno alle loro sofferenze più nascoste, non è mai un’impresa semplice, perché significa attraversare un campo minato dove ad ogni passo l’animo del lettore potrebbe esplodere, colpito al cuore delle proprie fragilità. L’autore riesce a raccontare, in maniera del tutto nuova ed originale, questo salto verso l’estremo confine della vita, perché, come sostiene Schopenhauer, il suicidio è sempre una violenta ma fortissima riaffermazione della Volontà di vivere. Chi decide di porre fine ai propri giorni, squarciando il velo di Maya della verità della propria esistenza e attraversando il fuoco devastante di una sofferenza a cui non riesce a legare una speranza di salvezza, non rifiuta mai la vita in quanto tale. L’uomo che avoca a sé il ruolo di Atropo, la Moira deputata a tagliare il filo che lega gli uomini alla vita, rifiuta in realtà un destino avverso, una croce che si è fatta di pietra, un passato che non riesce a rimanere tale, ma che riecheggia drammaticamente in un presente che non trasmuta mai in futuro, rimanendo sospeso in un’alba cristallizzata ai confini della notte.
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