L’arte dell’insegnare e dell’apprendere, con l'”inconveniente della Dad”. L’apparentemente scanzonato romanzo di Vanessa Ambrosecchio, “Tutto un rimbalzare di neuroni” ci catapulta però oltre la scuola, in una periferia palermitana, e nella gioventù d’oggi. Tra riflessioni amare e autocritiche, tra banchi di prova e groppi in gola
Un trattatello sulla complessa arte dell’insegnamento, e dell’apprendimento, camuffato da romanzo scolastico, spesso spassoso, ai tempi della Dad. Dad argomento caldissimo, d’attualità, su cui è stata calcata la mano, in sede di promozione, ma che è solo uno degli spicchi di un frutto gustosissimo. Con Tutto un rimbalzare di neuroni (128 pagine, 15 euro), la palermitana Vanessa Ambrosecchio (nella foto di Rori Palazzo) torna in libreria a distanza di tre anni da Cosa vedi (Il Palindromo) – di cui abbiamo scritto qui – ed è un ritorno a casa, alla casa editrice Einaudi, con cui aveva pubblicato il suo libro d’esordio, Cico c’è, nel 2004. Tre libri molto diversi fra loro, ma gli scrittori veri non hanno paura dei cambiamenti, di modificare sguardi e prospettive, di affrontare sfide sempre diverse, in breve d’essere eclettici, lasciando ogni volta il segno. La scuola nel ventunesimo secolo appare come un’istituzione in crisi, accentuata dalla Dad, anche in questo romanzo di Ambrosecchio (qui un’intervista all’uscita del precedente libro): un mondo che avrebbe bisogno di ritrovarsi e di ricevere una sterzata. L’insegnamento, però, può ancora essere un territorio che regala sorpresa ed entusiasmo.
Ce la farete? Ce la farai? Dipende da quanto dolorosa è stata la distruzione e da quanta fiducia hanno in te. Ma comunque andrà, è impagabile il momento in cui ti si spalanca davanti quella prateria del possibile, quell’alba, lo stupore dell’apprendimento che tutto sovverte, che abbaglia. Loro stringono gli occhi, si portano la mano alla fronte per ripararsi e guardare lontano.
Nostalgia e passione, sincerità e attenzione
Tutto un rimbalzare di neuroni è il libro di Ambrosecchio più apparentemente scanzonato e pop – pop nella misura in cui è scritto in uno splendido italiano, che dispiega tutti i timbri e colori del lessico – a tratti ha squarci di commedia, ma sotto la cenere cova riflessioni amare e prese di posizione nette. Anche autocritica verso il corpo docente, a cui appartengono l’autrice e l’insegnante che è la voce narrante, quella della terza H.
Spesso è dai soggetti come dai gruppi più scombinati, più insofferenti ai canoni, che arrivano le soluzioni inaspettate. Bisogna farci l’occhio e riconoscerle, e la scuola, i prof, io, non lo sappiamo fare.
Nostalgia e passione puntellano l’esperienza didattica di una terza classe della secondaria di primo grado, in una delle periferie di Palermo. Le poche certezze dell’insegnante che racconta e si racconta vengono spesso sovvertite, non solo in modo negativo. Le prime impressioni possono cedere il passo a ben più granitici e opposti convincimenti. Tutto si trasforma, nulla si ripete, in classe è un continuo sperimentarsi e mettersi alla prova, con poche, pochissime armi: la sincerità, la verità a tutti i costi, anche scomoda, il medesimo sguardo e la stessa attenzione rivolti a ogni componente della classe, «la stessa considerazione a ogni mano alzata, a ogni intervento, dal più acuto al più disarmante». «Insegnare non è una scienza esatta», si legge nelle prime pagine e il dispiegarsi delle storie di cui è intessuto questo libro lo dimostra davvero.
Il remoto che invecchia
Quando con la pandemia si materializza la Dad, per cristallizzarsi fino al termine dell’anno scolastico, sono l’umanità e la sensibilità a fare, a volte la differenza. Anche se il confronto col passato, pure prossimo, è stridente. La “pro” – super sintesi che non ha dato scampo nemmeno alla “f” – fa i conti con i singoli approcci degli studenti alle lezioni “in remoto” («Li sento, i ragazzi, stanchi come adulti senza essere passati per la gioventù. Forse è questo l’effetto che fa, il remoto: invecchia precocemente»), le difficoltà di connessione, addirittura con l’assenza dei dispositivi (non tutte le famiglie hanno), con alunni sfuggenti, apparentemente incapaci di restare a galla. Ed è in situazioni del genere che tutto è più difficile ed esaltante, che i fallimenti piombano addosso anche a chi ci prova con le migliori intenzioni.
Dirsi addio e sognare
Di Tutto un rimbalzare di neuroni, intriso di ironia che non è mai sarcasmo, restano anche tanti groppi in gola. Perché parla con schiettezza e sensibilità, attraverso gli spaccati personali e familiari degli alunni, di «quel filo teso a cento metri da scuola che è la vita […] dove la maggior parte di noi trema e traballa». Perché ci ricorda, o proprio ci spiega per la prima volta cosa è ogni banco di prova: «trasformare in angosce le passioni, in nemico chi ci è caro». Ci dà un ennesimo punto di vista sull’addio e sul sogno, che nelle righe finali del romanzo di Ambrosecchio coincidono, quando la docente si dice, a proposito del commiato dei propri alunni e del loro futuro di cui nulla sa, che «tu sei il passato e loro sono frecce scoccate nell’opposta direzione».
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