Negli anni Novanta Mario Rigoni Stern – che faceva parte di una schiera di scrittori di razza – scrisse un libro compiutamente maturo, che concludeva un’ideale trilogia dell’Altopiano. “Le stagioni di Giacomo” racconta la parabola di un amico di infanzia, parallela a quella dello scrittore, di cui si è appena celebrato il centenario della nascita. Una vicenda di grandissima umanità, incastrata fra le due guerre: la gioventù, la voglia di diventare grandi, il dolore con cui convivere…
I miei anni Novanta non sono stati caratterizzati solo dall’ascolto dei dischi degli Oasis, dallo studio appassionato delle materie che amavo e dal disinteresse totale per quelle che non mi sconfinferavano, ma anche dalla lettura delle opere che via via pubblicavano autori (oggi quasi tutti passati a miglior vita) protagonisti di una stagione irripetibile, specie a guardarla qualche decennio dopo, come Gesualdo Bufalino, Sergio Atzeni, Anna Maria Ortese, Mario Rigoni Stern, Francesco Biamonti (che Rigoni Stern frequentava e, in più di un’intervista, indicava come il più bravo di tutti), Dacia Maraini, Sebastiano Vassalli, Paolo Volponi, Luisa Adorno, Giuseppe Pontiggia, Claudio Magris, Ermanno Rea, Daniele Del Giudice. Rigoni Stern da Asiago, quasi dall’impero asburgico, per quanto potesse sembrarmi il più lontano per coordinate geografiche e per temi, per apparente eccentricità e spaesamento nel salotto buono delle lettere, era invece uno dei più vicini, lontano da ogni frastuono. E di certo non «un salice nano nella foresta della letteratura», come si era autodefinito in un’intervista a un quotidiano.
Memoria senza retorica e parola esatta
Nelle pagine dell’«uomo dei boschi» Mario Rigoni Stern – schivo, autentico, aderente con la propria vita alla propria opera – la natura è coscienza di sé; il paesaggio è puntellato di alberi che non sono genericamente tali, hanno tutti un loro nome, una loro memoria (senza retorica), un loro perché: non una semplice attenzione per ogni elemento dell’ambiente ma un coinvolgimento intrinseco, che si sposa con il culto mirabile della parola esatta, sulla pagina, e del silenzio nella vita. Le stagioni di Giacomo, pubblicato da Einaudi (da poco in una nuova edizione con bella prefazione di Laura Pariani) come la quasi totalità delle sue opere, mi è arrivato addosso l’ultimo anno di liceo e mi ha permesso di andare a ritroso e recuperare un buon numero degli altri libri di Rigoni Stern, di cui almeno tre magnifici. Si ricollegava idealmente, ma allora non lo sapevo, a un libro di dieci anni prima, L’anno della vittoria, che a sua volta aveva più di un legame con Storia di Tonle. Trittico di un’epopea della terra d’origine, piccola patria che che Rigoni Stern abbandonò solo a causa della guerra, prima di tornare per sempre, dopo la ritirata di Russia, in mezzo ai boschi, un po’ lontano dal paese.
Vivere e sopravvivere
Innamorato della steppa russa e dei geni russi della letteratura, ma anche e soprattutto di Hemingway, questo scrittore sbocciato nel dopoguerra, negli anni Novanta del secolo scorso aveva da tempo raggiunto la piena maturità. E Le stagioni di Giacomo non è lontano dall’essere un volume perfetto, insegnandoci l’alleanza con la natura, la fratellanza e l’umanità, vivere e sopravvivere, convivere con il dolore. Racconta una vicenda incastrata fra le due guerre, Rigoni Stern, protagonista un amico d’infanzia, la loro gioventù, la loro amicizia, la voglia di diventare grandi, un inverno – è una lettera finale a svelare tutto – una delle stagioni della vita di Giacomo, che inghiotte tutto.
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