Vita e romanzo, tempo e spazio, prosa e poesia si compenetrano ne “Il dio dei crocicchi” di Pier Franco Brandimarte, un diario di grande intimità e finissima letteratura, l’idea, ancora nebulosa, del romanzo che Brandimarte vuole scrivere e scriverà
Chi è questo dio dei crocicchi? Cosa ci dice e cosa ci tace?
Il suo è un mostrarsi per indicare la possibilità e non la via, un presidiare gli incroci come presenza ineffabile e oscura. È l’inestinguibile garanzia della vita che continua nonostante la devastazione in cui ci impigliamo, è l’urgente volontà di mangiarci il tempo, per non averci più a che fare, per arrivare chissà dove, forse alla fine del tempo stesso.
Il dio dei crocicchi (88 pagine, 10 euro) di Pier Franco Brandimarte, pubblicato da Mattioli 1885, è uno scritto atipico, una fitta commistione di prosa e poesia, l’evoluzione dello spunto e del ricordo, l’idea, ancora nebulosa, del romanzo che l’autore vuole scrivere e scriverà.
Una Galizia inesplorata
È questo il dispiegamento che seguiamo e proviamo ad afferrare per tutto il tempo, circondati da labirinti e croci, simboli di quel che siamo e siamo stati, pervasi da un sentimento di ricerca che conduce allo stesso tempo ovunque e in nessun luogo. Per poi ritrovarci ad anelare ad una patria negata: Itaca è distrutta, scivolata con Ilio nella tragedia, le sue pietre disperse ci ammiccano dagli angoli delle strade. La storia diventa un flusso in continua riscrittura, il luogo da cui anche la più integerrima delle spose è fuggita.
In mezzo alla selva infuocata di una Galizia inesplorata, l’arte si svela sotto forma di pensieri e illuminazioni, plasmandosi, sfuggendo per ricomparire inattesa.
La compenetrazione ci avvince, siamo stati e siamo molte cose, e di quello che siamo adesso forse non ci importa di sapere.
Tuttavia guardiamo al reprobo come a qualcosa di così sbagliato e disperato che l’invidia di essere sollevati dall’aspettativa ci coglie mentre temiamo di cadere nella stessa, irriducibile disgrazia per un capriccio del destino, un repentino ritrattamento della dea Fortuna.
L’inadeguatezza che ci accomuna
Procediamo tanto nel bosco quanto sulla spiaggia equipaggiati di un’inadeguatezza che ci accomuna gli uni agli altri, abbiamo sbagliato i calcoli – anche se poi, cosa potevamo davvero calcolare? – , e la necessità di perderci si confonde con quella di trovare l’uscita del labirinto.
Lungo il cammino il paesaggio segue il giorno e si mischia ad esso in un tempo sospeso tra la nebbia e la luce, tra una stagione che si riversa nell’altra e l’itinerario di cui non disponiamo.
Ci sfiora il pensiero che a tracciare la via sia il più terribile degli angeli, il messaggero di una divinità estinta, l’uomo in più che ci affianca per strada – lo stesso che T.S. Eliot ci introduce in The Waste Land, lo stesso che apparve a Shackleton la notte in cui attraversò a piedi le montagne della Georgia del Sud – la nostra stessa presenza allucinata.
La condizione umana
È allora che la condizione umana ci appare come la quintessenza del viaggio, di cui l’arte è strumento imprescindibile.
Vita e romanzo, tempo e spazio, prosa e poesia si compenetrano in questo diario di grande intimità e finissima letteratura e ci lascia con la nostra stessa immagine: duttili passeggeri, inesauribili energie prese a bordo da un traghettatore indiavolato.
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