Una giovane e volitiva marchesina e il figlio adottivo di un cuoco, nella Ibla di fine Ottocento, sono i protagonisti del nuovo romanzo di Costanza Diquattro, “Giuditta e il monsù”. Un romanzo che è uno scrupoloso cammeo dell’asfittico mondo nel quale soprattutto le donne erano costrette in un corsetto ideologico che trasfigurava ogni moto di liberazione, anche il più banale, in azzardato movimento di forzatura delle stecche, da pagare…
Per raccontarvi Giuditta e il monsù (224 pagine, 16 euro) di Costanza DiQuattro (nella foto di Laura Di Martino), Baldini+
Quel baule della dote…
Appartengo, probabilmente, ad una delle ultime generazioni di donne che valicarono la soglia della neo-casa coniugale recando seco il pesante baule della dote maritale. Mi riferisco alla sostanziosa collezione di tessili per uso domestico e biancheria personale – spesso passata in eredità di madre in figlia per generazioni – dal valore economico non certo marginale data la preziosità delle materie prime e il certosino lavoro manuale di realizzazione, ma dall’ancora più considerevole pregio sentimentale, integrando, tale patrimonio di pizzi e ricami, a pieno titolo, la memoria storica e affettiva di famiglia. Chi condivide con me questo bagaglio, prima ancora che materiale – ribadisco – culturale, sa che la composizione dell’assortimento era rigidissima riguardo alla rosa e al numero dei singoli articoli, e soprattutto che tra essi ve ne erano di imprescindibili, considerati alla guisa di veri e propri status symbol. Tanto premetto perché è ad uno di essi che, spesso e volentieri, ho accostato Giuditta e il monsù mentre leggevo. Alludo al copriletto in sfilato siciliano.
Evocazione inconsueta, lo ammetto, ma quasi obbligata e ve ne spiego il perché.
Cesello stilistico
Immaginatevi un drappo di candido lino, la cui trama e il cui ordito sono stati sfilati da abilissime ricamatrici, in ore e ore di duro lavoro, fino a creare un reticolato, intramato nuovamen
Immaginatevi ora la mia sorpresa quando, sollecitata a soddisfare ulteriori curiosità sull’antichissima tipologia di ricamo che mi ha ispirato il parallelismo, abbia scoperto che se ne perpetua l’arte ad Ibla, località nella quale è ambientato Giuditta e il monsù.
Due indizi, si sa, fanno una prova. A cosa da luogo, invece, la somma di una suggestione personale e della coincidenza di un dettaglio geografico? Azzardo che, sebbene non trasformi le mie idee sul romanzo in verità oggettive, almeno apra la strada all’insinuarsi, tra gli anfratti di questo consiglio di lettura, di certe suggestioni dal vago sapore rarefatto le quali lasciano trasparire, meglio di ogni altro esempio, il clima, lo spessore, l’intensità della narrazione.
Due neonati e un proseguo naturale
Torno allora al nostro copriletto. Torno ad osservare nel dettaglio il riquadro che lo impreziosisce. Eccoci nel 1884. Eccoci nella famigerata Ibla, «una realtà a sé, lenta e ordinata, sonnacchiosa e bella. Troppo pigra dentro quei silenzi assordanti riempiti solo dal suono sobrio delle campane …» fino a quando riecheggia dei vagiti di Giuditta e, a qualche ora di distanza, di Fortunato. Lei è l’ultimogenita del Marchese Chiaramonte, il quale non cela la cocente delusione per l’arrivo dell’ennesima figlia, desiderando ardentemente un erede maschio. Lui «m’ picciriddu lassatu davanti alla porta» che il Marchese accoglie a palazzo, imponendone l’adozione al suo cuoco. Intuitivo il proseguo della storia, esito naturale di una convivenza cominciata in fasce e proseguita oltre le soglie dell’adolescenza, cementata dal proponimento di Giuditta di diventare – oltre il destino di genere e di nascita – monsù e di Fortunato di integrare l’apprendistato nelle cucine, al fianco dei genitori (che ignora siano adottivi), con la condivisione abusiva dell’istruzione di Giuditta, la quale, infatti, puntuale dopo ogni lezione, si rifugia in cucina per lo scambio di ruoli, così da attendere lei ai fornelli e lui ai quaderni.
Uno spaccato storico accuratissimo
Siamo di fronte alla classica e banale storia d’amore? Decisamente no. La storia rosa (che pure sarà segnata da un importante colpo di scena) è il lenzuolo colorato su cui, per consuetudine, si adagia lo sfilato onde far risaltare i particolari della decorazione. La trama fintamente semplice, solo apparentemente elementare, costruita armonizzando la lingua, la sintassi, i dialoghi e ogni altro elemento narrativo con una destrezza che richiama appunto l’agilità, la flessuosità e la leggerezza della raffinatissima tecnica di ricamo citata, riverbera uno spaccato storico accuratissimo, che mi ha riportata ai tempi di inamovibilità sociali, di rigorose gerarchie familiari e di ruoli, di rigidità concettuali. Giuditta e il monsù è uno scrupoloso cammeo dell’asfittico mondo nel quale soprattutto le donne erano costrette in un corsetto ideologico che trasfigurava ogni moto di liberazione, anche il più banale, in azzardato movimento di forzatura delle stecche, in trasgressione da pagare con la segregazione, in deragliamento da una vita già determinata dalla routine consuetudinaria. Costanza DiQuattro sollecita e accompagna con gran tatto, attraverso il racconto delle quotidiane gesta della giovane marchesina, il comprensibile risentimento dei lettori verso tali anacronismi, eppure conserva la lucidità di non forzare i tempi storici, di non caricare la protagonista di aspirazioni emancipatrici in chiave femminista decisamente premature. Giuditta mi ha conquistato grazie alla sua indole volitiva, determinata, tenace, e non le ho voluto meno bene perché la sua ribellione, piuttosto che frutto di aneliti idealistici di grande respiro, è tarata su ragioni introspettive, individuali, soprattutto istintive anziché teoriche.
Mi ha conquistata anche Costanza DiQuattro. Ignoro se, parimenti alla sua creatura letteraria, abbia ambizioni da monsù. Certo è che la ricetta realizzata con questo romanzo è gustosissima.
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