Vi ricordate il Codice da Vinci? Bonina ve lo farà dimenticare…

Un chiaro esempio di come, preso uno schema, si possa letteralmente trasformare l’arte della scrittura in un esercizio di interpretazione. Ecco cosa è “Il tempio dell’attesa”, il più recente romanzo di Gianni Bonina, ambientato fra Siracusa e Barcellona, intrecciato di enigmi religiosi, spaventosi segreti, morti e indagini. Un libro che parla di un libro, in un incastro di linguaggi reciprocamente strutturanti: procedendo nella risoluzione del mistero, il libro di Bonina va svelandosi come mistero esso stesso. Altro che Dan Brown…

Nel 2003 un fatto clamoroso sconvolse il mondo della letteratura, ribaltando come in un cataclisma l’editoria e, tre anni dopo, il cinema. Veniva pubblicato Il Codice da Vinci, di Dan Brown. Da quel momento, volenti o nolenti, nessuno di noi avrebbe più potuto prescindere da questo “fatto” che, immediatamente, diede vita ai suoi strascichi: masse intere di lettori cominciarono ad idolatrare questo libro come se si fosse trattato di un testo rivelato, totalmente ignari del fatto che fosse esclusivamente un romanzo (c’era chi cercava su internet “Priorato di Sion”, perché avrebbe voluto iscrivercisi e riceverne la tessera!). Altri, quasi infastiditi dalla foga dei primi, si ritirarono in un elitario silenzio culturale. Altri ancora, grazie a Dio, lo lessero con tanta avidità che, da quel momento in poi, ci presero gusto e cominciarono a comprare altri libri e a leggere anche quelli, per fortuna.

Un filone editoriale che fu

Vi fu poi tutto un filone editoriale che, da quel momento in poi, cominciò a martellare il ferro caldo del thriller fantareligioso-complottista-apocalittico, proponendo versioni pressoché identiche dell’identico canovaccio dove, in una maniera o nell’altra, c’era sempre di mezzo un qualche misterioso segreto che avrebbe fatto crollare la Chiesa Cattolica (e ti pareva!). In quel periodo in libreria si trovava di tutto; senza vergogna di titoli o copertine, spiccavano romanzi del tipo (sto inventando, per fare un esempio): Il codice Girolamo, in copertina il santo che nascondeva una pergamena sotto il teschio che – da sempre – gli fa compagnia sul banco di studio; oppure, L’Enigma da Vinci (e daje!); oppure ancora Il Priorato di Loyola, con un acutissimo e originalissimo riferimento al fondatore dei Gesuiti; e cose simili. Tutti avevano a che fare con un tremendum da svelare, ovviamente celato dalla Chiesa, e in quasi tutti i casi i personaggi della narrazione erano un morto, che apriva la scena; un indagatore (normalmente un accademico trovatosi per caso a fare il detective); una donna, parente del morto e femminino necessario accanto al protagonista; un esperto, normalmente straniero e affiancato alla coppia; oltre, naturalmente, al gerarca cattolico di turno che poteva essere, a seconda dei casi, un arcivescovo, un abate, un pontefice o magari, chissà, pure il Prete Gianni.

Resta inteso che, naturalmente, gli scrittori seri di thriller, da quel momento in poi, si guardarono bene di parlare di graal, ultime cene, priorati e conventicole simili, insieme a qualsivoglia elemento avesse anche solo da lontano potuto richiamare il libro di Dan Brown.

Come una macchina

Fatta questa lunga premessa, che fino a questo punto potrebbe indurre l’autore del testo di cui parliamo oggi a pensar male di me, occorre aggiungere una precisazione.

Quando un libro che abbiamo tra le mani ci sembra molto simile ad uno che abbiamo già letto, ciò accade o perché ne costituisce una volgare scopiazzatura (come poc’anzi ironizzavamo) oppure perché chi l’ha scritto ha voluto compiere un preciso esercizio di riscrittura, facendo in modo – cioè – che chi leggesse il suo libro notasse quelle somiglianze che non sono emerse per caso ma che sono state volute e studiate, in modo tale da usare un libro come una macchina, come un complicato e antico artefatto meccanico capace di funzionare in un determinato modo a prescindere dalle sue variabili.

Esperimento già portato magistralmente a termine da Umberto Eco il quale, col suo Il Nome della Rosa, utilizzando ad arte i meccanismi della narrazione a più livelli (linguistico e metalinguistico, appunto) fece sì che fosse la stessa parola del testo a produrre i suoi molteplici effetti, così che il prodotto finale funzionasse a prescindere dall’orizzonte interpretativo su cui si era focalizzato il lettore. In effetti, se ci pensiamo bene, quale grande trama ha Il Nome della Rosa? Nulla di che. Anche lì un mistero (vi ricordate cos’era?), dei morti, un frate che diventa investigatore, un abate reticente e preoccupato e tanti monaci più o meno invischiati in una lugubre vicenda. Una trama da bestseller commerciale, appunto, ma innestata in un endoscheletro testuale capace di far essere quel romanzo molto più di ciò che sembra. Pensateci un attimo: se qualcuno vi chiedesse che tipo di romanzo è Il Nome della Rosa, sapreste rispondere? Direste che è un capolavoro.

I segreti del mestiere

Aggiunta questa lunga precisazione, che servirà ad avere in mano gli strumenti del mestiere del lettore avveduto, possiamo ora presentare il nostro testo: Il Tempio dell’Attesa (18 euro) di Gianni Bonina, pubblicato quest’anno da Bertoni editore.

Le 431 pagine di questo romanzo (anch’esso difficile da catalogare proprio perché scritto su livelli diversi) sono un chiaro esempio di come, preso uno schema, si possa letteralmente trasformare l’arte della scrittura in un esercizio di interpretazione. Bonina, che del resto ha già vestito per ben due volte in Natale Banco i panni dell’investigatore (Cronaca di Catania, Mursia, 2013 e Morte a debito, Mesogea, 2016), e che ha alle spalle una biografia costellata da eventi letterari e percorsi saggistici e narrativi, conosce bene il mestiere, benissimo. Sa come si usa la materia letteraria e quali segreti una certa impalcatura narrativa sia capace di disvelare già a partire da sé stessa, e ne dà dimostrazione in questo libro che porta già nel titolo un indizio. Già, perché non è il tempo dell’attesa, come ci verrebbe da leggere quando i nostri occhi guardano alle parole come ad ideogrammi, ma il Tempio. Una di troppo, lunga e dritta come la colonna d’una chiesa, ma capace, da sola, di operare già una trasformazione semantica, senza peraltro rinunciare al contiguo.

Tre precise categorie umane

Da lì in avanti, e quindi già dalle primissime pagine, si è proiettati nel mondo dei personaggi, a noi familiari perché siciliani e perché, soprattutto, immersi in un ambiente umano e urbano le cui descrizioni dettagliate rendono appetibile e visibile ogni singola riga. Il libro lo si vede, più che leggerlo. Si osservano le scene, si osservano i personaggi camminare tra le strade di Barcellona e di Siracusa, e chi ha orecchio e un buon labirinto riesce persino ad accorgersi che certi loro dialoghi (come pure certi loro pensieri) rispettano perfettamente lo spazio-tempo del racconto, esattamente come avviene nei film. L’equilibro della narrazione, mai adulterato da incongruenze o inutili deviazioni, permette di tracciare senza difficoltà alcuna l’aspetto e il carattere dei personaggi principali: Franco Fantini, Mario Accardo e Andrea Arena, tutti e tre docenti universitari ma non per questo dei cloni. Al contrario, ciascuno di essi presuppone un mondo, un orizzonte, un livello. Il lettore sente a pelle la possibilità di potersi identificare con ciascuno di essi, a seconda della propria sensibilità, delle proprie credenze, o semplicemente a partire dalla determinazione di questi tre caratteri che, in sostanza, sono come il riflesso di tre precise categorie umane.

Risolvere un mistero, un libro che è un mistero

Inutile qui tracciare una trama, dopo tutto quello che si è detto sopra. Ma indispensabile soffermarci sul come essa vada dispiegandosi, attraverso l’uso sapiente delle immagini testuali ed ipotestuali, attraverso il concorso di ciò che si vede perché viene descritto e spiegato e ciò che non si vede, o non subito, e su cui ogni lettore deve puntare attentamente lo sguardo. Sì, il lettore è chiamato ad una specie di collaborazione con Fantini, che gioca il ruolo del detective. Quest’ultimo ha le proprie cose da trovare e capire, se vuole sciogliere il bandolo della matassa; ma chi legge il libro, esattamente con lui e insieme con lui, deve saper cercare ciò che le parole rivelano. Quando questo accade, la prima impressione è un soddisfatto sorriso: l’autore mi ha voluto dire qualcosa, si è fidato della mia intelligenza, vuole che lo aiuti a risolvere il caso, o forse un altro! Un libro da trovare, quello di Bonina. Un libro che parla di un libro, in un incastro di linguaggi reciprocamente strutturanti: così che, man mano che si procede nella risoluzione del mistero, il libro stesso di Bonina va svelandosi come mistero esso stesso.

Fortissimo è l’apparato simbolico e duplice la valenza di ogni elemento. Questa duplicità coinvolge sia il piano orizzontale della narrazione, sia quello verticale che va dal libro in quanto tale a ciò di cui il libro parla. Lettore fortunato colui che, in questa scatola cinese, mantiene l’equilibrio di una lettura attenta che mai dovrà essere veloce o frettolosa, pena perdersi la bellezza di questi richiami da Bonina così sapientemente orchestrati.

Il tempio e la montagna, per esempio, che in un gioco di simboli si danno il cambio tra significato e significante, lasciano percepire tutto lo scarto ma anche la contiguità tra l’opera di Dio e quella dell’uomo. Ora, come nella suddetta fusione di immagini, il libro partecipa al medesimo gioco mostrandosi, fin dalle prime pagine, come l’epigrafe metalinguistica del suo stesso oggetto: la narratio diventa, in qualche modo, parte integrante del mistero, partecipando pienamente della duplice natura dell’indagatore e dell’indagato, e poi dell’incredulo e dell’obbediente.

Quando lettore e storia quasi coincidono

Il romanzo, che sembra evolversi come in una spirale, assecondando ritmi e tempi con proporzioni auree sempre più cronologicamente ristrette, si dischiude al contrario, quasi contraendosi in una narrazione sempre più intima, dove lettore e storia finiscono per avvicinarsi sempre di più, fin quasi a coincidere. Ma è un quasi zenoniano, infinitamente prossimo ad un’assimilazione che non può essere osservata finché si rimane all’esterno di questo orizzonte degli eventi. Peraltro, accedervi annullerebbe la storia, perché il tempo e lo spazio della narrazione perderebbero di senso. È la parola stessa del testo, semmai, a creare una realtà lì dove un lettore non potrebbe osservarla. In questo Bonina è certamente maestro: conosce le proprietà performative della parola e lascia che essa proceda, ripresentando quasi con la stessa efficacia della realtà ricordi ed esperienze, come se, ad un certo punto, chi legge la storia ha quasi il senso d’avervi preso parte. Alla fine, in una maniera che non ci si aspetta, si scopre che in qualche modo è stato proprio così.

Persino la copertina, così poco commerciale col suo invendibile Cristo che riposa crocefisso, così poco vicina alle tendenze del marketing editoriale, che vorrebbe in tal guisa immagini capaci di attirare, dove invece si mostra il volto di Colui alla morte del quale quasi tutti fuggirono. Ebbene, forse questa copertina è ancora una volta un rimando: l’immagine di qualcosa, anzi di Qualcuno, che si fa piccolo, quasi invisibile, che si contrae come una singolarità senza spazio e senza tempo, prima di completare l’opera sua, prima di generare un nuovo universo, quello che attendiamo, quello per cui la stessa creazione geme come nelle doglie del parto.

Il tempo si fa Tempio: la linea orizzontale della storia diventa linea architettonica verticale di un edificio che, insieme a tutti gli altri, assurge al ruolo di metafora: l’edificio spirituale fatto da pietre vive, che sono gli uomini. Il tempio, dunque, che nella storia è un edificio di culto, nel suo significato diviene la stessa interiorità dell’uomo, chiamato a credere e ad attendere, ad adorare dal tempio stesso del Sé. La città, sia essa Barcellona o Siracusa, diventa la Sion spirituale in cui è possibile scorgere il confine tra ciò che è terreno e ciò che è celeste, tra ciò che è consapevole e ciò che è inconscio. Temi questi che stanno alla base dei film Stigmata Matrix, non a caso citati dall’autore.

“Ci mancavano i templari!”

È essenzialmente in questi elementi che Bonina gioca la carta che fa la differenza, mostrandoci come similarità non significhi necessariamente uguaglianza, dove copia e modello rimangono concetti prossimi ma differenziati. Ed è proprio qui che, nel momento in cui il lettore si convince di aver beccato i costituenti del plagio letterario, Bonina lo sconvolge mostrandogli che lo si è fatto apposta. Ma il motivo per cui si è fatto è il lettore stesso che deve scoprirlo, ed è questo il vero mistero del libro.

Così, nel groviglio di una trama che, tra echi di madonne nere e rimandi storici e geografici, rischia di trasformarsi nel solito canovaccio alla Codice da Vinci, ecco che Bonina, attraverso la bocca del prof. Arena, se ne esce con un’espressione tanto leggera quanto efficace: «Ci mancavano anche i templari, adesso!», la quale produce il geniale effetto di mantenere da un lato la medesima griglia narrativa del romanzo di cui sopra, dall’altro di epurarla da tutte gli abusati artifici complottistici tipici di altre narrazioni collaterali. Come a dire: la storia può ricordarne un’altra, ma è tutta un’altra storia. E tuttavia, per non rischiare che a qualche lettore possa sfuggire l’ironica allusione poc’anzi accennata, ecco che Bonina, sempre giovandosi del prof. Arena (non è che, per caso, egli si riveda in questo personaggio?) ci mette il carico con una stilettata autoironica, che funziona ancor più della precedente: «Non sarà che qualcuno vuole riscrivere il Codice da Vinci?». Come a dire: Tanto so che lo direte, quindi ve lo dico io. Ridendone pure. Tie’!

Il carico è un tre, ma l’asso arriva qualche pagina dopo, quando Bonina il romanzo di Brown lo cita direttamente, attraverso il riflesso di ciò che il protagonista, il prof. Fantini (il Robert Langdon della situazione), vede e su cui riflette. La citazione, più che incamerare l’altra storia in questa, se ne separa ancora una volta. Risonanze, dunque, ma senza unisoni. L’unica gemellarità è quella custodita dal testo come elemento misterioso che soggiace alla narrazione e che la realizza: il “doppio allegorico” che travalica il racconto e fa del “libro” un segno stesso di ciò che vi si narra.

No ai facili paragoni

L’importante è che il romanzo e il suo mistero rimangano fuori dal circolo delle facili riduzioni di genere. Bonina, dunque, anche attraverso le sue strategie intratestuali, storna i facili paragoni e protegge la verosimiglianza di una storia che, benché possa apparire simile ad altre, fa emergere la propria unicità proprio dal grado di coinvolgimento della coscienza dei suoi lettori e, soprattutto, dallo spessore dei contenuti.

Del resto «È questo il segreto del romanzo, che leggiamo perché lo crediamo vero e verosimile, e siamo pronti a sospendere l’incredulità».

Di contro, in una sorprendente reduplicazione di senso, chi volesse rimanere incredulo potrebbe farlo avvalendosi nientemeno che del principio di indeterminazione di Heisenberg, già citato lungo il testo ma – quasi alla fine – implicitamente adattato a modello epistemologico allorché si dice che, tanto in modo analogo quanto paradossale, l’autore di un annunzio è credibile fintanto che il suo annunzio non diventi autografo; come a dire che, nel momento in cui si leggesse la parola scritta di colui che annunzia come se questo scritto ne fosse il criterio di autorevolezza, quest’ultima verrebbe meno per il fatto stesso d’averla letta. La gnosi che diviene gnoseologia, dopo averla fatta coincidere con il cristianesimo tout court (esclusa, s’intende, la confessione cattolica).

L’indicazione stessa dell’autore, che troviamo ad introduzione del testo e che a questo punto dovrebbe esser passibile del medesimo rasoio gnoseologico, ci dice che il libro contiene un’ampia parte saggistica ed un’altra romanzata il cui oggetto è l’ignoto, ciò su cui – proprio perché inconosciuto – si può romanzare. Le due parti, l’una liscia e levigata come il dogma, l’altra frastagliata e fantasiosa come l’incredulità, sono come colonne che sostengono e prospettano il medesimo tema, quello dell’attesa, su cui si impernia tutto il romanzo. Certo è che sulla parte frastagliata è più facile arrampicarsi man mano che l’immaginazione procede nella sua opera creatrice. La stessa cosa non avviene con la parte liscia, dove è facile scivolare specie quando ci si inoltra in un ambito che – ancorché non empirico proprio perché teologico – possiede comunque una sua episteme precisa, oltrepassata la quale è facile che qualche lettore più addentro alle questioni cristologiche o scritturistiche possa storcere il naso.

Ma è il rischio del romanziere, che è tale non perché possieda il governo dell’intero scibile umano ma perché, godendone d’una parte molto limitata, è comunque capacissimo di costruire, attraverso frammenti che potrebbero rimanere isolati, una storia capace di metterli insieme, e che appaia verosimile. Chi si interrogasse sulla verità di un romanzo, o sulla verità dei suoi presupposti e delle sue premesse, dimenticandosi che da esso si cerca soprattutto la verosimiglianza (e cioè l’arte), si porrebbe sterili interrogativi. Del resto, chi cercasse un saggio non comprerebbe un romanzo, né chi volesse leggere un romanzo si aspetterebbe di trovarvi la quintessenza d’ogni dottrina.

A proposito di misteri

Un’ultima cosa da dire, a conclusione di questo articolo, senza il rischio che possa essere un’anticipazione a chi volesse leggere il romanzo.

Il prof. Fantini cercava un mistero, un segreto, un oggetto che avrebbe senz’altro costituito una scoperta sensazionale. Non vi dirò se ci sia riuscito o meno. Ma di Bonina posso dirvi una cosa: lui un libro misterioso l’ha scoperto davvero qualche anno fa. Un testo su cui vagheggiavano personaggi del calibro di Calvino e di Sciascia. Un ipotetico libro che l’etnologo Serafino Amabile Guastella avrebbe scritto ma del quale non si era mai avuto riscontro fino a che non fu Bonina a scoprirlo per primo, a serrarlo tra le sue mani come un tesoro! Un libro che certamente non cambierà le sorti del mondo né provocherà l’Armageddon, ma il cui rinvenimento costituisce per uno studioso il premio di tutta una vita, forse la più grande tra le sue soddisfazioni.

Perché vi dico questo?

Perché quando comprerete questo romanzo sappiate che a scriverlo è stato un uomo che a caccia di un mistero c’è andato davvero, e che dunque conosce ogni voce e sfumatura di queste emozioni. Ecco. Provate a immaginare come possano essere i suoi personaggi!

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