Torna Masha Gessen, con uno stupendo volume ibrido, tra autobiografia, saggio e reportage, in cui si racconta l’illusione del Birobidžan, inospitale regione ai confini della Cina in cui il Partito comunista sovietica voleva far nascere una patria ebraica e yiddish. “Dove gli ebrei non ci sono” ricostruisce la parabola, anche paradossale, di un luogo e di un’idea, infine dilaniata dal terrore stalinista e permette di riflettere «sul concetto di casa e sul sapere quando partire»
La formidabile Masha Gessen da quasi dieci anni è tradotta in Italia, ma solo con il suo penultimo titolo, Il futuro è storia per Sellerio (ne abbiamo scritto qui), approdato dalle nostre parti, ha trovato una giusta collocazione, ha fatto capire in Italia la dimensione e l’importanza del proprio lavoro, che si muove spesso fra reportage, forma saggistica e romanzo. In quel gigantesco volume blu – scommessa della casa palermitana e in particolare dell’editor Marcella Marini – Gessen sviscera la più grande illusione della Russia post-muro di Berlino, l’illusione della democrazia, morta tra le mani di Putin, che ha definito i connotati della nuova Russia: una società alle prese con un regime paternalistico, quello di Putin, ed incapace di liberarsi dalla sottomissione psicologica creata dal comunismo, reazionaria e autoritaria, etno-nazionalista e xenofoba.
Quesiti universali
Di un’altra grande illusione, di utopia e fallimento, scrive Masha Gessen nel suo volume (di cui abbiamo anticipato qui il prologo) recentemente pubblicato dalla casa editrice La Giuntina e tradotto da Rosanella Volponi, Dove gli ebrei non ci sono. La storia triste e assurda del Birobidžan, la regione autonoma ebraica nella Russia di Stalin (218 pagine, 18 euro). Un libro, figlio di un’analisi lucidissima, di una lunga documentazione, di viaggi e interviste e di privatissime faccende che hanno segnato pelle e pensieri dell’autrice russa ormai stabilitasi negli Stati Uniti. Raccontando di un luogo mitico, da far impallidire quasi l’Alaska de Il sindacato dei poliziotti yiddish di Michael Chabon, Gessen illumina la storia del mondo ebraico russo, «mondo di assenze e di silenzi». La cancellazione della cultura ebraica in Russia è raccontata attraverso la storia della costituzione della Regione autonoma del Birobidžan (e della lenta dissoluzione della sua idea originaria) e attraverso alcuni quesiti specifici ma forse universali (Quando gli ebrei dovrebbero stare fermi e quando dovrebbero fuggire? Come sappiamo dove saremo al sicuro? La partenza è sempre indice di codardia? L’incapacità di partire può essere un tradimento della vita stessa?). Le vicende del Birobidžan – regione piuttosto inospitale, al confine con la Cina, ma le persone possono sopravvivere dovunque, secondo più di un esperimento sovietico – hanno attraversato il ventesimo secolo facendo i conti con antisemitismo e pogrom, con l’indigenza dei pionieri che finirono in quella landa desolata a est, con il nazismo e con la Shoah, alcuni sopravvissuti pensarono di trovare un luogo che li accogliesse, con lo stalinismo, dunque con arresti e purghe, perfino con roghi di volumi in yiddish, oltre che con periodi alternati di esaltazione e di ridimensionamento.
Alla fine, il Birobidžan sarebbe stato, formalmente, uno dei due Stati ebraici del mondo – quello dove gli ebrei non vivevano. Avrebbe attraversato tutte le fasi della costruzione mancata di uno Stato: dalla speranza alle avversità, al dolore e al timore, alla perdita e alla vacuità, fino a sembrare, alla fine, ridicolo. Sarebbe stato un luogo con un giornale in lingua yiddish e nessun residente che la parlasse.
Di più. Come Masha Gessen ha constatato, una decina di anni fa, come la biblioteca locale, intitolata a Sholem Aleichem, ricevesse testi in yiddish da discendenti ebrei che li ritrovavano. Testi che nessuno era in grado di leggere. Altra eclatante cancellazione? Quella di qualsiasi traccia della Shaoh nel locale museo ebraico…
Un lungimirante intellettuale in fuga
La storia ha mille rivoli, ma è perlopiù puntata sulle tracce di un personaggio dal singolare talento di comprendere quando la terra gli sarebbe crollata sotto i piedi, capace di guardare a tutto con lungimiranza, e di tagliare la corda, avendo preparato per bene il terreno, affinché la sua ennesima fuga avesse trovato una destinazione, anche in barba a qualsiasi coerenza ideologica. E, in fondo, come confessa Gessen nelle prime pagine questo è un libro «sul concetto di casa e sul sapere quando partire», oltre che «dedicato ai miei genitori, che hanno avuto il coraggio di emigrare». David Bergelson, nativo di uno shtetl ucraino, orfano giovanissimo, viaggiatore suo malgrado, nomade, scrittore che nell’yiddish aveva trovato la propria voce, ebbe una parabola di vita pressoché parallela alle vicende del suo magnifico sogno, quello del Birobidžan. Arrendendosi alla violenza stalinista nel 1953, in quella che sarebbe passata alla storia, dopo un sommario processo (in cui le accuse erano le peggiori agli occhi dei sovietici: nazionalismo, borghesia, sionismo) come la Notte dei poeti assassinati, di fatto il capitolo finale del terrore stalinista, l’ultima esecuzione decisa da parte del dittatore comunista, morto di lì a poco. Eppure a metà degli anni Trenta l’ebreo errante Bergelson aveva preferito lasciare Berlino per tornare in Unione Sovietica, rinnegando collaborazioni con riviste americane e pubblicando tanto di Manifesto a favore del Birobidžan. Ricevendo inizialmente anche qualche privilegio. Ma, si sa, nella vita, e in particolare nella vecchia Urss, essere innalzato ed essere umiliato… è questione anche di attimi.
Arresti e torture per propaganda e complotto
L’accoglienza di moltissimi orfani e di ebrei sradicati di tutto il pianeta, la fioritura di riviste in yiddish, l’apparente immunità a qualsiasi rigurgito antisemita (non si esitava a usare i pugni per rispondere a certi tipi di insulti e Gessen racconta di come, con le cattive, un gruppo di invalidi di guerra riuscì a far cambiare idea a un tizio alticcio…), la costruzione di scuole e fattorie collettive non ingannino. L’esperimento in laboratorio del Birobidžan aveva basi poco solide e già alla fine degli anni Quaranta, in Urss, gli ebrei diventarono il principale nemico interno, per il Pcus esisteva un reale complotto nazionalista yiddish. Il Comitato ebraico antifascista, in qualche modo la classe dirigente e intellettuale della regione ebraica, fu accusato di propaganda antisovietica e smantellato a suon di arresti, torture, interrogatori, ammissioni che andavano ben oltre le reali deposizioni. Bergelson dopo decenni smarrì quella che sembrava una invincibile immunità e finì travolto come alcuni suoi compagni di viaggio.
Nulla è cambiato
Una storia dolente e grottesca (paradossale l’epilogo al locale museo del Birobidžan), quella che Masha Gessen ricostruisce in Dove gli ebrei non ci sono. Una storia di fughe e persecuzioni, di sogni e velleità solo vagheggiate, spazzate dalla Storia. Il mondo visto dal Birobidžan con vista su tutto ciò che è venuto dopo l’Urss non sembra essere così diverso dalle dinamiche dell’impero sovietico se, ancora adesso (l’edizione originale del libro è datata 2016), gli archivi della locale biblioteca sono inaccessibili per quanto riguarda la persecuzione di chi aveva creduto in quel sogno tutto ebraico di una regione autonoma.
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