Una storia che sembra non avere salvezza, quella raccontata da Maurizio Fiorino in “Macello”. Protagonista Biagio, figlio del macellaio di un piccolo centro del sud, capace di profondi tuffi vitali e di inaudite mancanze di sensibilità. Forse la sola via percorribile è quella di far finta di non esistere, fino a scomparire…
Sanguina il breve, nuovo romanzo di Maurizio Fiorino, Macello (155 pagine, 15 euro), per e/o. Rimane appeso al gancio del macellaio e ci racconta, nelle sue macabre, grevi oscillazioni, la storia di Biagio che pare non avere salvezza dal marciume che lo circonda.
Biagio è il figlio del macellaio di Bagnamurata, uno squallido paesino del sud Italia devastato dalla miseria e dall’ignoranza. A crescerlo è una veggente, Lia, perché la mamma di Biagio è scomparsa in un incidente quando il bimbo era ancora piccolissimo. Il padre di Biagio, Bruno, è un uomo illeggibile, violento e disturbato. Con i suoi repentini cambi d’umore e le sue punizioni che trascendono il limite della follia ha trascinato quel figlio schivo e spaventato nel baratro del trauma e della disperazione.
Rovine strutturali ed esistenziali
Tutto a Bagnamurata sembra crollare, e crolla, addosso ai suoi abitanti e a Biagio che rimane incastrato in una realtà putrida, fatta di scampoli rattoppati e puzzolenti, di sogni inconfessabili trasformati in patetiche esistenze, di obblighi ciechi e violenti che si fanno gabbia inossidabile.
Tutte le strade a Bagnamurata sono polverose, disseminate di rovine strutturali ed esistenziali. Il paese Vecchio è il luogo oscuro che sovrintende all’infelicità amorosa, la fastidiosa sterpaglia su cui perdere ogni verginità e assumere su di sé l’incolmabile, maledetta distanza dalla grazia di un cielo inondato di stelle.
Il perenne rifiuto della bellezza
La disperazione per una felicità appena intravista e subito estorta si riversa tra le pareti di un bagno cieco, a fissare il vuoto, nelle funamboliche passeggiate ai margini di uno strapiombo montano, nei pugni nudi tirati alle carcasse appese nel retrobottega della macelleria, nell’inconscio, perenne rifiuto della bellezza, agito per sabotarsi e, al tempo stesso, salvarsi da una delusione così insostenibile da trasformarsi in rabbia furibonda.
E così Biagio, che cammina sull’orlo del baratro, è un personaggio ambiguo, il centro controverso di tutta la storia, capace di profondi tuffi vitali e di inaudite mancanze di sensibilità, lucido nel tirare le somme della propria esistenza e al contempo incapace di provare pietà. È forse per colpa di una maledizione che si esplica negli stessi oggetti, perfino negli stessi gesti ripetuti, tramandati di generazione in generazione, che Biagio scivola lentamente in un tritacarne che non gli dà scampo?
Esistere altrove?
Eppure, da quel magma ribollente e indecoroso che sembra essere la sua vita, egli trova la forza di gridare al cielo, di provare per qualche attimo – quanto dura in effetti la felicità? – a emergere da una malia che ha avvelenato ogni cosa, di affondare i pugni nel fallimento di un’intera comunità, a rendersi conto dell’orrore toccatogli in sorte e consentirsi di impazzire a pelo d’acqua, in un abbraccio imprevisto.
Rimane allora da trovare la risposta ad una domanda che ci rincorre fin dalle prime righe, se sia possibile o meno, per Biagio – e per chiunque altro abiti i panni logori di quel paesello – esistere in un altro luogo – “Io esisto qui, non esisto da nessun’altra parte”– o se la sola via percorribile sia quella di far finta di non esistere, fino a scomparire.
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