Un libro da far leggere ai giovani, specie se innamorati: ecco cosa è “Emarginati” di Susan M. Papp. Un libro che ci ricorda come esista qualcosa di più feroce della stessa distruzione, ed è il non aver permesso che qualcosa si compisse, si realizzasse così come Dio o la Natura desideravano. Un libro che ci spiega come l’amore sia capace di incarnarsi nella storia, anche nella più terribile, e portare poi i suoi frutti. La nuova puntata della rubrica Area 22
Una storia d’amore. Così recita il sottotitolo di questo libro di Susan M. Papp, Emarginati (332 pagine, 18 euro), pubblicato da Giuntina nella traduzione di Vittoria Dentella, recando con sé quasi un suggerimento sul genere preciso di questo testo, che appare romanzo ma consegna ciò che, necessariamente, un romanzo non è chiamato ad essere: un storia vera, una storia d’amore.
Esistono romanzi pieni di storie d’amore inventate, che affondano le loro radici nell’amore stesso il quale, se lo si inventa è solo perché – etimologicamente – lo si scopre, lo si trova da qualche parte nella propria vita o nella vita degli altri. Talvolta però questo rinvenimento è così forte, così immediato e preciso nei suoi contorni storici, che chiamarlo “romanzo” non basta più, e occorre precisare che è anche una storia vera, un insieme di fatti realmente accaduti.
Una scoperta avvenuta per caso – con tutte le controimplicazioni di questa parola così abusata – ad un ricevimento, tra due persone che ritrovandosi decidono di reinventarsi in un abbraccio che è già letteratura perché fa percepire un mondo. È da questo abbraccio che nasce la storia, che si ritrova e si riscrive la storia, non nel senso di qualcosa che debba essere scritto in modo diverso, ma nel senso di ciò che è necessario riscrivere perché non si dimentichi.
Memoria, ciò che si desidera ricordare
E cosa non si deve dimenticare?
Facile rispondere a questa domanda. Del resto stiamo parlando di un testo della Giuntina e quindi… E quindi cosa?! Quando si parla di memoria non ci si può riferire solo a ciò che rischia d’essere dimenticato, ma soprattutto a ciò che si desidera ricordare con ogni cellula del proprio corpo! E solo l’amore ha questo potere; ha il potere di reclamare la memoria come una stessa necessità di esistenza. L’amore è ciò che, ricordato, solo ha la facoltà di vivere e far rivivere, di rendersi ancora efficace, di ripresentarsi con tutta la sua potenza, di seminare ancora vita lì dove sono fioriti tristi semi di morte.
E allora chiariamo subito una cosa. Questo libro racconta, come tanti altri, fatti legati alla Shoà, alla deportazione, ai massacri e alla folle violenza dell’essere umano. Ma questo è il contorno, è la cornice narrativa, anzi addirittura è solo una parte di essa. Ciò per cui questo libro è stato scritto coincide con un altro fine: raccontare una storia d’amore! E questa è già una vittoria, una redenzione, un essere riusciti non solo più a sopravvivere, ma a vivere ancora.
Immedesimarsi
Hedy e Tibor sono i due protagonisti, ma si lasciano accompagnare da altre storie che sono loro vicine, perché alla loro si intersecano. Sono dei protagonisti che non escludono dunque che altre vite possano essere celebrate insieme alla loro. Anzi, il loro stesso amore è ciò che il lettore avverte come qualcosa di generato dall’intero contesto, anche da quegli elementi che, presi da soli, fanno paura. Hugo diceva che quando nel nostro cuore entra la notte, possono rimanere tracce di stelle. Nel nostro testo avviene qualcosa del genere: gli eventi, scatenati e portati al parossismo dalla follia umana, conducono a questo incontro provvidenziale, anche se…
E ancora presto per il se.
Prima lasciate che ogni pagina vi descriva i fatti, gli eventi, le abitudini e soprattutto le contingenze storiche, così che nessuno possa mai pensare all’amore come ad un’astrazione, ma come qualcosa che – con una indescrivibile drammaticità – è capace di incarnarsi nella storia, anche nella più terribile, e portare poi i suoi frutti.
Un forte senso di pathos emerge dal testo quando, ad un certo punto, seguendo le vite di Tibor ed Hedy, ci si immedesima nell’uno e nell’altra, indipendentemente dal fatto che ci senta virili e sicuri di sé come il primo, o graziosi e profondi come la seconda. Ci si immedesima in entrambi e in ciascuno di essi perché, oltre un certo momento, non ci interessa più capire chi dei due potremmo essere, ma tendiamo con tutte le nostre forze a far sì che tanto l’uno quanto l’altra possano amare, possano tornare a farlo. Il loro desiderio di dar seguito a quei germogli di passione appena dischiusi diventa il nostro desiderio di poter fare ciò che, magari, nella vita di tutti i giorni abbiamo disimparato.
L’intrinseca ricchezza delle cose semplici
Sì, perché amare è qualcosa che accade e che si sceglie, come allacciarsi le scarpe, apparecchiare la tavola, spostare una tenda, uscire per strada, incontrare gente. Tutte cose a cui siamo abituati, forse anche troppo. Al punto da non comprenderne più l’eccezionalità, ovvero l’intrinseca ricchezza delle cose semplici, invisibile fin tanto che non ti venga tolta, negata. Quando ciò avviene ne comprendi l’inguaribile assenza, la depauperazione, e se sei fortunato puoi accorgertene leggendo un libro, senza che debba succederti davvero.
A Tibor ed Hedy accade davvero: succede che la loro quotidianità venga sconvolta, che le loro famiglie – a prescindere dalla etnia o dalla religione – diventino vittime di un meccanismo micidiale che non guarda in faccia a nessuno. A loro succede di dover fuggire, di doversi nascondere, di dover fingere pur facendo le cose più… normali. Normali per noi, che possiamo farle. Straordinarie per chi vorrebbe e non può più.
E allora, nel concatenarsi di tante piccole violenze che faranno la Storia, ecco questa storia, dove davvero l’autrice ha fatto di tutti per estrapolare dal fumo il luccicore di tutto ciò che non può smettere di risplendere, anche se offuscato. La mano di chi scrive segue la storia con un’accuratezza che va molto al di là della semplice scrupolosità del cronista, e mostra un rispetto ed una tenerezza indicibili. A questi sentimenti si aggiunge la maestria di chi sa utilizzare certi elementi narrativi perché ciò che già è capace di parlare arrivi a proclamare, a gridare, a farsi sentire anche dal lettore più distratto.
Un maglioncino azzurro
Come quando sembra riproporsi un’immagine che, certo, tutti ricordiamo: quella di un tristemente famoso cappottino rosso. Unica violenta immagine di colore in uno schermo grigio. Lì eravamo noi, pubblico occasionale, davanti alla cruda scena del film, a trarre le nostre conclusioni. Ma rimanevano conclusioni diluite nella massa degli spettatori, senza che in fondo quel cappottino appartenesse a nessuno di noi. Qui il cappottino non c’è, e non è rosso. Abbiamo un maglioncino, azzurro, trapunto da un volo di farfalle ricamate sopra. Un maglioncino appartenuto ad una bambina di dodici anni, raccolto da una triste piramide di abiti dismessi e pronti per il macero. Un maglioncino che a noi non dice nulla, ma che grida tra le mani di chi lo trova, lo raccoglie e lo riconosce. Il testo diventa capace di cromatismi che arrivano a superare quelli cinematografici, perché vi aggiungono colori che non possiamo vedere né minimamente immaginare. Ne intravvediamo l’aura, attraverso il riflesso dei personaggi e dei loro sentimenti, ma rimane l’abisso tra la lettura e la vita, tra l’aver imparato cosa accadde e l’esserci stati dentro.
Ma per amare non occorre essere stati ad Auschwitz. E così la storia continua, senza che possa mancarci nulla di ciò che, autonomamente, il nostro cuore può continuare a generare come speranza e desiderio.
Finché non giungono le ultime pagine del libro, e allora ti accorgi che esiste un crimine forse più grande di tutti gli altri, perché tutti gli altri – in fondo – hanno origine in esso; esiste qualcosa di più feroce della stessa distruzione, ed è il non aver permesso che qualcosa si compisse, si realizzasse così come Dio o la Natura desideravano. Così come, semplicemente, lo avrebbero desiderato Tibor ed Hedy, senza bisogno di interpellare il metafisico.
Una possibilità
Ma anche lì, è come se la Storia consegnasse a “questa” storia una possibilità, come se ancora tendesse la mano ad un’aspirazione rimasta sospesa, perché possa compiersi. A quel punto poco importa sapere come questa possibilità sia stata raccolta e interpretata, ma fa bene sapere che ci sia stata: che degli occhi invisibili, nascosti oltre le cortine dell’assurdo, abbiano accompagnato i nostri protagonisti ricordandosi di loro e lasciando che, dopo l’intero trascorrere di un universo di vite, le loro due abbiano potuto avere la gioia di contemplarsi ancora, l’una di fronte all’altra, in uno di quei momenti in cui si vorrebbe dire tutto ma poi, alla fine, ci si accorge che chi ci sta di fronte è già la più cara e gradita parola che la bocca del destino possa aver pronunziato.
Da far leggere ai giovani, specie se innamorati. Perché imparino il senso della memoria, che non è solo quello di ricordare, ma di creare una vita degna d’essere ricordata. E perché, nel turbine dei loro sentimenti oggi troppo spesso consegnati alla banalità di un mondo che non sa riconoscerli, imparino che amare è cosa grande, capace d’essere più forte della violenza. Capace d’essere più penetrante della morte.