Nuova puntata della rubrica “A lunga conservazione”. Nascita ed evoluzione della punteggiatura, dal punto ai punti di sospensione. Oggi l’uso dei segni di interpunzione sembra rispondere sempre più a esigenze stilistiche e ritmiche che talvolta finiscono con l’infrangere le regole primarie. Importante rifletterci su, fra emoji e Ugo Ojetti
I quattro segni del titolo non sono certo impunemente intercambiabili, eppure in qualche caso potrebbero diventarlo. Che so: Kelly si lasciò cadere sulla sedia, pensava di non aver più nulla da dirgli. Kelly si lasciò cadere sulla sedia: pensava di non aver più nulla da dirgli. Kelly si lasciò cadere sulla sedia. Pensava di non aver più nulla da dirgli. Kelly si lasciò cadere sulla sedia; pensava di non aver più nulla da dirgli.
L’autore attribuisce ai segni le sfumature semantiche che reputa più appropriate al contesto: ritenzioni, cesure, argomentazioni; nella nostra frase, magari anche la volontà di rimarcare o attenuare l’eco di quel che precede. (Anche nella musica la tecnica esecutiva prevede diverse possibilità: per suonare due note diverse, il musicista può eseguirle staccate, o legate, o invece utilizzando quel che si chiama portamento: ovvero arrivare da una nota all’altra come strisciando sul pentagramma per fare udire di sfuggita tutti i suoni compresi nell’intervallo fra le due note.)
La celebre lettera di Totò e Peppino
Totò e Peppino, nella celebre lettera, non si fanno scrupolo a largheggiare in punteggiatura, con esiti straordinari: un capolavoro di comicità che cita, verosimilmente senza intenzione, i nonsense delle avanguardie storiche come il futurismo o il dadaismo.
Ma nell’antichità le cose andavano persino peggio. Classicisti e filologi conoscono bene la questione della scriptio continua, la scrittura continua.
I testi erano “pacchetti” costituiti da incessanti sequenzediparolesenzaspazinesegnidiseparazione. Mi scuso per il ne senza accento, certi segni erano inesistenti o facoltativi. Altro che punteggiatura.
E immaginate cos’era la scrittura continua in un sistema a base consonantica come l’arabo o l’ebraico. Qualcosa del genere: sqnzdprlsnzspznsgndsprzn e via così per l’intero testo. O meglio, a esser precisi: nzrpsdngsnzpsznslrpdznqs, dato che le lingue semitiche procedono da destra verso sinistra.
Quei provvidenziali segni separatori
A un certo momento apparvero provvidenziali segni separatori (puntini, tratti); fece poi seguito la vera e propria spaziatura, la differenziazione fra maiuscole e minuscole e un utilizzo sempre più evoluto di segni atti a chiarificare la lettura. È solo nei testi a stampa rinascimentali che possiamo riconoscere pagine a noi familiari.
Forse non tutti sanno che la Divina Commedia ci è pervenuta senza (o con scarsa) punteggiatura. Di Dante non è sopravvissuto nessun documento autografo. A provvedere all’interpunzione sono stati i curatori antichi e moderni, sicché anche oggi può accadere a chiunque di leggere su differenti edizioni lo stesso canto diversamente punteggiato. Va da sé che potrebbe accorgersene solo un dantista o un lettore assai avveduto.
La normazione della punteggiatura studiata a scuola soddisfa la necessità di regolamentare l’organizzazione sintattica; e tuttavia l’uso dei segni di interpunzione sembra rispondere sempre più a esigenze stilistiche e ritmiche che talvolta finiscono con l’infrangere le regole primarie; alla meglio con l’ammorbidire certe rigidità prescrittive. In verità, i risultati non sono sempre felici. Molta letteratura di consumo denota una scarsa familiarità tra autori e grammatica. Ad ogni modo, sta di fatto che il linguaggio è in continuo mutamento; e molti “illeciti” sono anche il risultato della contaminazione tra lingua parlata e lingua scritta. E però, i rivoluzionari privi di ingegno a me ricordano quelli che ai cortei rompevano solo i coglioni.
Non tutti sono Gertrude Stein che poteva permettersi sortite come «la punteggiatura serve solo ai deboli di mente».
In piena deriva ideografica
La lingua scritta non è solo quella letteraria. Anche la lingua degli epistolari fra gente comune, bene o male resta nell’alveo d’una “scrittura”; e non dico nel senso d’una struttura grammaticale, ma di un semplice “sistema di parole”. Il campo visivo ristretto e la frammentazione frastica della lingua dei nuovi epistolari, le chat, non sono certo il migliore dei luoghi possibili per coltivarci la punteggiatura. È comunque curioso che le Emoticon, ma faccine mi piace di più, siano nate utilizzando proprio segni di interpunzione e caratteri speciali. La versione giapponese dell’Emoticon, il Kaomoji, sta tornando in auge, mentre ormai tutto ruota intorno agli Emoji. Insomma, scambiasi parole per pittogrammi. Siamo in piena deriva ideografica.
I numerosi saggi sulla punteggiatura apparsi negli ultimi trent’anni hanno dato origini a svariati dibattiti e a una vivace convegnistica: segno che nella scrittura letteraria la punteggiatura godrebbe di buona salute. Mi ha molto divertito scorrere alcune tabelle che riportano la ricorsività numerica di specifici segni di interpunzione utilizzati da singoli autori per singoli libri; o invece degli ultimi venti vincitori dello Strega.
La querelle sul punto e virgola
Il “punto” più controverso risulta essere il punto e virgola, osannato da alcuni e vituperato da altri. C’è una vera e propria querelle fra puntovirgolisti favorevoli e contrari.
Personalmente, confesso di avere un debole per il ; lo trovo un segno duttile, intelligente, sensibile; non tranchant come il punto ma ben più ricercato d’una virgola, la quale, diciamocelo, in funzione paratattica rasenta un egualitarismo demagogico.
Altri abusi
Il punto interrogativo è inattaccabile per il suo valore intrinseco. La sua assenza può scatenare catastrofi planetarie.
Fra i segni più adoperati ne restano due di cui non s’è fatta menzione, il cui uso sconsiderato a me personalmente scatena gravi rash cutanei: i puntini di sospensione e il punto esclamativo. I primi, utilissimi a restituire gli inceppi o gli scarti del parlato nei discorsi diretti, nella narrazione sono invece sintomo di pavidità e irresolutezza. Da scrittori alla Don Abbondio, per intenderci. Quanto al punto esclamativo, a me pare lo stendardo di un vitalismo spesso scriteriato. E a tal proposito, il giornalista e scrittore Ugo Ojetti (1871-1946) ci ha lasciato alcune memorabili considerazioni.
Odio il punto esclamativo, questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo di bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, quest’asta della bestemmia, questo pugnalettaccio dell’enfasi, questa daga dell’iperbole, quest’alabarda della retorica. Quando, come s’usa nei nostri tempi scamiciati, ne vedo due o tre in fila sul finir d’un periodo, che sembrano gli stecchi sul didietro d’un’oca spennata, chiudo il libro perché lo sento bugiardo. […] E se potessi far leggi, bandirei il punto esclamativo dalla calligrafia, dalle tipografie, dalle macchine da scrivere, dall’alfabeto Morse, con la speranza che a non vederlo più gli italiani se ne dimenticassero anche nel parlare e nel pensare, e pian piano espellessero dal loro sangue questo microbio aguzzo il quale dove arriva fa imputridire i cervelli e la ragione e rimbambisce gli adulti, acceca i veggenti, instupidisce i savi, indiavola i santi.
Non potete immaginare come mi trovi d’accordo!
Oh, pardon.