Nuovo episodio della serie gialla di Salvo Toscano con protagonisti i fratelli Roberto e Fabrizio Corsaro. In “Memorie di un delitto” indagano su un caso del 1989, un omicidio commesso a Cefalù. “C’è un’idea di passato perduto – spiega l’autore – che attraversa tutto il romanzo. Come allora, a Palermo, conta il cognome che si porta; chi ne è sprovvisto e abbonda di talenti va via, anche più di ieri. E poi porto avanti un’idea garantista della giustizia, siamo pur sempre il Paese di Beccaria…”
Memorie di un delitto (288 pagine, 9,90 euro) è l’ultimo thriller Newton Compton firmato da Salvo Toscano, creatore, mentore nonché garante, nel corso della pericolosa pandemia, dell’incolumità dei fratelli Corsaro. Abbiamo incontrato Toscano, oggi giornalista della TGR RAI Sicilia, per parlare di questa nuova avventura che vede ancora una volta Fabrizio e Roberto Corsaro indagare, insieme, su un delitto e ricostruire in tandem fatti e verità, con un occhio attento a pregi e difetti dei palermitani di ogni epoca.
Salvo, dopo avere assaporato l’ebbrezza delle sliding doors – nella precedente avventura chiamata La tana del serial killer l’uno si era divertito a fare l’altro, con tutte le conseguenze che la vita restituisce senza sconti a chi si azzarda a modificare il consueto incedere – i Corsaro tornano a più miti consigli e, dunque, ai rispettivi posti di combattimento, pronti a misurarsi, oltre che con i consueti fastidi e doveri di ogni santo giorno, con un nuovo caso. E però, dei due, quello che sembra temere di più questa “variazione sul tema” sembra essere Roberto, puntualmente punzecchiato da un Fabrizio un po’ meno sarcastico, forse per via di questo suo nuovo, sorprendente, desiderio di paternità…
«Sì, tornano i Corsaro di sempre. Per quanto in ogni libro entrambi cambiano un po’, come ciascuno di noi nella vita. È una scelta che ho fatto sin dall’inizio, forse senza rifletterci troppo. Cioè fare evolvere continuamente i due personaggi, cosa che non sempre accade ai protagonisti delle serie gialle».
In Memorie di un delitto, i due fratelli palermitani si ritrovano di nuovo insieme, ad indagare sul medesimo delitto, ma una volta tanto non per puro caso o per una curiosa coincidenza, ma grazie ad un incarico ufficiale affidato loro da un’anziana nobildonna che, come lei stessa candidamente ammette, ha saputo delle loro eroiche gesta. E così Fabrizio e Roberto, giornalista l’uno ed avvocato l’altro, accettano di occuparsi di un omicidio commesso a Cefalù nel lontano 1989, un anno fatidico per il mondo, ma fondamentale anche per la storia che tu racconti, perché i nostri eroi, allora ragazzini, sono proprio figli di quel tempo…
«Lo sono come lo sono io. Anche se io e i Corsaro, ai tempi del delitto di cui si racconta in questo libro, eravamo più giovani dei protagonisti della vicenda, che erano ventenni. I fatti risalgono al 1989, che è un anno di fine di un’era, il tramonto del comunismo, la caduta del muro, il mondo diviso in blocchi che si risveglia senza più quella barriera. È un buon anno per evocare quell’idea di passato ‘perduto’ che attraversa tutto il romanzo».
Il tuo ultimo lavoro è anche il ritratto affettuoso e forse un po’ malinconico della gioventù degli ultimi scampoli degli anni ottanta, quella dell’era pre-connessione. Nella storia che tu racconti c’è, per esempio, il consueto incontro stagionale tra i ricchi villeggianti dell’alta borghesia cittadina ed i meno ricchi giovani del luogo, costretti, questi ultimi, ad inseguire ad armi impari una moda, pur di essere ammessi a far parte di una cerchia o, come si diceva allora, della comitiva. A Sanremo, quell’anno, avrebbero dovuto essere i giovani i protagonisti del Festival, con i “figli d’arte” (Celentano, Quinn, Tognazzi, Dominguin) nelle vesti di presentatori, ma, forse, né nella città dei fiori, né nell’Italia dell’89 vi fu un vero e proprio passaggio di testimone tra le generazioni e i grandi, i potenti continuarono a comandare, mentre altrove molti di quei giovani furono testimoni di eventi straordinari…
«Sì, era un anno e un tempo di grandi promesse. Ma l’Italia è un Paese avaro verso i suoi giovani. Soprattutto quelli che non hanno il cognome giusto. Solo che anche questi ultimi, come i protagonisti di questa storia, non sono immuni dalle delusioni di quel tempo che non mantiene le promesse».
Anche in questo tuo ultimo thriller tu torni a parlare di errori giudiziari, di inchieste gestite male o non gestite affatto perché già decise in partenza. Sono temi sui quali tu spesso ti soffermi, dando a Roberto ed a Fabrizio il compito di metterli in evidenza e, in un certo senso, di porvi rimedio. È un argomento che ti sta molto a cuore…
«Sì, è uno degli argomenti che più mi sta a cuore, direi. Ho dedicato a questo tema diversi romanzi della serie dei fratelli Corsaro. E tanti articoli nel mio lavoro di giornalista. E innumerevoli post sui miei profili social. Persino un blog, Stato di diritto. Ciascuno di noi abbraccia qualche buona causa nella vita, ma spesso strada facendo ci scappano di mano e le perdiamo. È successo anche a me, ma non per questa. La considero una battaglia di civiltà, affermare un’idea garantista della giustizia, un’idea che era quella della nostra Costituzione e che dovremmo rivendicare con orgoglio noi che siamo il Paese di Beccaria. Invece siamo diventati un’altra cosa, da almeno venticinque anni in questa parte un giustizialismo bavoso e un moralismo fasullo e d’accatto avvelenano il nostro Paese. Io non mi rassegno. E continuo a gridare la mia idea di civiltà. E continuo a pensare che una giustizia senza garanzie, senza diritti e anche senza pietas verso il reo non è giustizia, è una cosa diversa. Che mi fa paura. Come mi fa paura, devo chiamare le cose col loro nome, il potere che in Italia si è consegnato alla magistratura requirente, con tutto il rispetto per quanti esercitano con misura quella funzione».
Anche in “Memorie di un delitto” ci sono, oltre ai due protagonisti ed alla nobildonna che con la sua iniziativa innesca tutto il plot, alcuni giovani personaggi davvero interessanti. A quale di questi ti senti particolarmente vicino e quale di questi considereresti ancora attuale?
«È un romanzo pieno di giovani e di gioventù. E credo che i ragazzi degli anni Ottanta raffigurati nella storia vivano dinamiche che restano attuali, senza tempo. Non so, sinceramente, quanto li senta “vicini”. Confesso che ho fatto un po’ fatica all’inizio a immedesimarmi in un ventenne, ho dovuto scavare parecchio nel mio ricordo per “vedere” i vent’anni da dentro».
E non potevamo non parlare di Palermo. Qual è il ritratto della nostra città che esce fuori da questo tuo ultimo racconto e, ammesso che vi siano, quali sono i punti in comune di quella città con quella di oggi?
«Qui si racconta di quei ventenni della Palermo bene che negli anni Ottanta vivevano un certo lusso. Erano anni in cui circolava tanto denaro, io ero un po’ più giovane di quei ragazzi all’epoca ma me li ricordo bene. Penso che purtroppo nella Palermo di allora come in quella di oggi, il cognome che si porta, come accennavo prima, resti sempre un patrimonio fondamentale per un giovane. L’amarezza sta nel fatto che quelli che ne sono sprovvisti e che invece abbondano di talenti oggi se ne vanno, molto più di allora».
Abbiamo iniziato dicendo che oggi più che mai sei garante dell’incolumità dei due fratelli Corsaro. Quali contromisure adotterai per portare avanti un compito coì gravoso? Forse chiederai ancora una volta aiuto ad un famoso investigatore italo-americano, noto per i suoi metodi all’avanguardia e, purtroppo, barbaramente ucciso dalla mafia a Piazza Marina?
«Il mio caro Joe Petrosino. Spero di farvi leggere un’altra storia con lui protagonista, di tornare insieme ai miei lettori nella New York di inizio secolo. Intanto, mi tengo strettii fratellini, se dovesse capitare loro qualcosa so bene che i loro fan (e sottolineo loro) non me lo perdonerebbero. E troppo di recente ho letto Misery di Stephen King per sottovalutare questa cosa».