Abbaglianti le prose critiche di Virginia Woolf raccolte in “Genio e inchiostro”: per la scrittrice anche un apprendistato alle opere maggiori, fra ritratti ammirati, giudizi sferzanti (che non dimenticano l’indulgenza), e idee non convenzionali sull’arte del romanzo…
Competenza, arguzia, curiosità, abbinate possibilmente all’entusiasmo e alla passione della lettura. Virginia Woolf, nelle vesti di autrice di recensioni e piccoli saggi, aveva mirabilmente in sé queste qualità, come si evince dalle abbaglianti prose critiche raccolte in Genio e inchiostro, libro (con prefazione di Ali Smith) che raccoglie i suoi contributi apparsi sul Times Literary Supplement, in forma anonima (era la consuetudine del tempo, solo negli anni Settanta sarebbero apparse le firme), e che fa parte di una collana varata anche da Harper Collins Italia, oltre che dalla casa madre statunitense. Mirabili ritratti scritti con ammirazione e maestria, su tutti quelli di Hardy, Conrad e Montaigne («In quei volumi straordinari di affermazioni brevi e frante, lunghe e dotte, logiche e contraddittorie abbiamo sentito proprio il battito e il ritmo dell’anima. […] Ecco una persona che è riuscita nella rischiosa impresa di vivere, che ha servito il proprio paese e ha vissuto nel proprio ritiro; è stato signore, marito, padre; ha intrattenuto re, amato le donne e riflettuto per ore, da solo, su vecchi libri»), sincerità che non esclude cattiverie, divertimento totale tra lettura e scrittura, intuizioni sagaci e perfino qualche geniale cantonata, come quella proverbiale su Joyce: «Ulisse è stato una memorabile catastrofe – immenso per audacia, straordinariamente disastroso». Ecco cosa garantisce Virginia Woolf ai lettori di questo libro e, più in generale, a quanti si accostano alla lettura.
Lo sguardo profondo
Raramente un grande scrittore è anche un grande critico. Una delle eccezioni supreme è Vladimir Nabokov (si pensi al suo Lezioni di Letteratura pubblicato da Adelphi), per il resto pochi altri esempi. Uno, adesso che la traduzione di Sara Sullam di Genio e inchiostro è realtà, potrebbe essere proprio Virginia Woolf. Oltre trent’anni di collaborazione al noto supplemento letterario, a partire dal 1905 (cioè quando ancora la Woolf non era la… Woolf, per i suoi capolavori occorre attendere gli anni Venti), si riassumono in uno sguardo estremamente perspicace e profondo e in quello che in qualche modo è stato un lungo e proficuo apprendistato del mestiere, un laboratorio di scrittura per le opere maggiori. Lettrice senza lacune, scrittrice di sfumature e profondità, ragiona sul punto di vista degli autori, sul contesto in cui si muovono, sulla totalità della loro produzione e certo non su un singolo titolo. Trasformando questa raccolta di scritti anche in involontario manuale per lettori.
… leggendo, come siamo soliti fare, solo i capolavori di un’epoca passata, tendiamo a dimenticare la forza con la quale il corpo della letteratura è capace di imporsi: non sopporta una lettura passiva, ma ci prende e ci lacera; sfida preconcetti, interroga principi che ci eravamo abituati a dare per scontati, e, anzi, ci divide in due parti mentre leggiamo, così che, anche quando ci divertiamo, ci costringe o a cedere terreno o a impugnare le armi.
Bordate e carezze
Nello stesso articolo, Appunti su un dramma elisabettiano, Woolf, escludendo Shakespeare, fa a pezzi, con intelligenza e ironia, gli elisabettiani minori, sottolineandone ampollosità e retorica: «ci annoiano perché soffocano la nostra immaginazione invece di attivarla», «dodici decessi di uomini e donne adulti ci commuovono meno della sofferenza di una mosca in Tolstoj». Non sono i soli passaggi davvero critici su opere e autori, John Evelyn, diarista del diciassettesimo secolo, per esempio è «ignorante, ma convinto di far progredire con le proprie mani non solo la propria conoscenza ma quella dell’umanità. […] Fece deduzioni e produsse congetture che oggi sarebbero considerate alla stregua del chiacchiericcio di un gruppo di donne raccolte attorno al pozzo del villaggio. […] La sua scrittura è più opaca che trasparente. Non vi scorgiamo profondità, né movimenti segreti della mente e del cuore». Bordate assortite che non escludono carezze: «Ma anche quando ci assopiamo, in un modo o in un altro il gentiluomo dei tempi andati stabilisce, attraverso tre secoli, un fremito di comunicazione, così che, senza porre l’accento su qualcosa in particolare, non smettiamo mai di prestargli attenzione».
I romanzieri e il pubblico
In uno dei saggi brevi più interessanti, Sul rileggere i romanzi, è vivisezionata l’arte della narrativa, dai classici incontrovertibili ai contemporanei (di Virginia Woolf, dunque alcuni altri classici): dalla tentazione inevitabile di identificarci con i personaggi a quella di paragonare il mondo della fiction a quello reale – e di giudicarlo allo stesso modo, coi medesimi parametri – a quella di chiedere ai romanzieri alcune cose e di riceverne… altre. Le conclusioni a cui giunge Virginia Woolf, sulla scorta di un saggio di Percy Lubbock, Il mestiere della narrativa (The Craft of Fiction), sono controcorrente e inattuali, abbastanza sorprendenti:
… il lettore comune si rifiuterà di restare seduto a bocca aperta, in attesa passiva. Ciò equivale a incitare il ciarlatano a stupirci e il prestigiatore a fare dei trucchi. Dobbiamo tallonarlo, e far sì che il romanziere che tesse i suoi libri in solitudine avverta la pressione del pubblico. La pressione del pubblico non ridurrà il romanzo a un’opera teatrale che possiamo leggere per intero in quattro ore tra l’ora di cena e quella di andare a letto. Ma incoraggerà il romanziere a scoprire – ed è l’unica cosa che gli chiediamo – che cosa intende dire e come mostrarcelo al meglio.
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