I racconti di Malesangue? “Il buio di ciò che siamo”

Intervista a Marco Montanaro, fondatore di Malesangue, entità anonima e collettiva a cui sono riconducibili le sei storie di “Terrore, amore poi ancora terrore”: “Si racconta una storia per il gusto di raccontarla e il gusto è tutto nella forma che prende il racconto. I personaggi vanno interpretati come si farebbe con le particelle della meccanica quantistica: esistono solo se osservati, soprattutto esistono solo nell’interazione. Un po’ quello che succede a tutti noi. Penso che persino questo libro sia un modo per fare e dare ordine all’universo, nonostante la destrutturazione e l’apparente stranezza…”

Terrore, amore poi ancora terrore è il primo libro di Malesangue, un’entità anonima e collettiva che attraverso il blog malesangue.com, fondato da Marco Montanaro nel 2009 e definito, come leggiamo dalle pagine reperibili sullo spazio virtuale, «una capsula del tempo che raccoglie cose, per lo più da libri, e che per un decennio ha prodotto racconti e altri prodotti letterari» almeno fino a quando, un paio di anni fa, Malesangue ha chiuso con le pubblicazioni digitali per dedicarsi a nuovi progetti, tra cui il libro di cui ci accingiamo a parlare.

Pubblicato da Liberaria editrice, Terrore, amore poi ancora terrore (152 pagine, 12,50 euro) è una raccolta di sei racconti – Terrore, amore poi ancora terrore, Diagnostica per immagini, I due Minnesänger, A nessuno piace Jeff Healey, Il controsorriso, La passeggiata (Un caso editoriale) – sospesi tra l’onirico e il reale, tra la vita, il sogno e la morte e abitati da personaggi quotidiani così come da personaggi straordinari e attraverso i quali l’autore riscrive i tradizionali codici del racconto. Ciò che ne viene fuori è una narrazione alla periferia degli schemi, una narrazione fatta di incastri e di rimandi tra storie diverse, di biografie solo accennate (alle quali ho inizialmente cercato di dare struttura e collegamenti, ma dentro le quali alla fine mi sono persa), di mondi e generi letterari differenti, ma soprattutto di emozioni perturbanti dove amore e terrore, come due facce di una stessa medaglia, si intersecano e si mescolano fino a confondersi.

Ammetto che da diverso tempo ho concluso la lettura di questo testo, ma ammetto anche di non essere riuscita a trasferire “adeguatamente” i miei pensieri su carta né di essere soprattutto riuscita a trovare una chiave di senso che mi soddisfacesse appieno rispetto alla prospettiva di scriverne per fornire ad altri potenziali lettori stimoli che permettessero un avvicinamento critico alla lettura di questo insolito volume. Riuscivo a intravedere un libro smart, ma al tempo stesso ambizioso; apparentemente illogico e in realtà portatore di intercorrelazioni e rinvii talmente fini e raffinati da sfuggirmi; perturbante eppure magnetico (in questo mi ha ricordato la lettura de Il perturbante di Freud); sofisticato e sperimentale nell’intenzione come nella narrazione. Allora ho provato a lasciare sedimentare i racconti, a lasciare che col tempo fosse il libro a parlarmi di sé e a guidare la mia mano, infine mi sono arresa: di cosa tratti “davvero” questo testo, oltre di quello che ho già scritto, io non avrei saputo dirvi. Così ho iniziato a riflettere che forse la chiave giusta era partire proprio da qui: dal mio smarrimento, dal mio sapere di non sapere, da questo aspetto che poteva essere al contempo ragione di grande forza così come trasformarsi in elemento di scoraggiamento alla lettura. L’unica conclusione cui sono giunta è stata chiedere un confronto con Malesangue, che, con le sembianze del fondatore Marco Montanaro, ha subito accettato.

Ne è venuta fuori una piacevole intervista che di concerto con l’autore mi è sembrata la soluzione migliore da proporre a chi fosse curioso di scoprire questo testo. Quindi, ecco a voi il resoconto della nostra telechiaccherata.

Cominciamo col dire qualcosa di più di Malesangue. Al di là delle poche note biografiche che possiamo leggere in quarta di copertina e qua e là su internet, infatti, non molto altro si sa di “lui”. Dunque chi è e come nasce Malesangue?

«Malesangue era il nome del mio blog e di alcuni miei avatar digitali. Molta gente, per molti anni, mi ha conosciuto così. Come blog, Malesangue ha ospitato anche altri autori, altre personalità. A un certo punto non lo sentivo più come un nom de plume, ma come un’entità a sé, ben separata e distinta dal sottoscritto».

Perché Malesangue, nato su un blog, a un certo punto della sua storia sente di voler passare al tradizionale mezzo della carta stampata e del libro?

«Questa è la prima volta su carta per Malesangue, ma non per me (Marco Montanaro, ndr). Diciamo che per Malesangue è stato un modo per chiudere un cerchio, oltre che il blog chiuso al compimento dei dieci anni di vita proprio mentre usciva il Terrore, amore poi ancora terrore. Per me, invece, da qualche tempo Malesangue è la forma che prende la scrittura quando affronta la fiction pura – anche se capita sempre meno spesso. Devo aggiungere che i racconti di questo libro hanno iniziato a prendere vita attorno al 2008. Sono stati scritti e riscritti così tante volte, mentre intanto uscivano altre cose mie, che, quando nel 2018 il testo era ormai finito, mi sembrava davvero che lo avesse scritto qualcun altro. Cioè Malesangue».

Perché questo alter ego digitale e collettivo ha scelto di chiamarsi proprio Malesangue? A cosa vuole riferirsi questo nome? Cosa vuole rievocare?

«Nel mio dialetto, Malesangue sta per sangue amaro, ma con una sfumatura forse più acida, più corrosiva rispetto all’italiano. Faccio notare che ogni volta che si fa del sangue amaro o del malesangue, c’è sempre qualcuno nei paraggi che suggerisce bonariamente che non è il caso, che non ne vale la pena. Il che di solito finisce col generare ancora più malesangue in chi ne sta facendo. Ecco: chi fa malesangue lo fa anche per dimostrare che ne vale sempre la pena».

Qual è l’intenzione narrativa che Malesangue si propone in Terrore, amore poi ancora terrore?

«Penso che alla base della fiction pura non ci sia mai un’intenzione narrativa troppo chiara, consapevole o esplicita. Penso che si racconti una storia per il gusto di raccontarla e il gusto è tutto nella forma che prende il racconto, per quanto questa possa apparire strana o singolare. «Chi semina suono raccoglie senso» diceva Lewis Carroll (o forse era l’Aldo Busi che lo ha tradotto? Chissà…). Aggiungo che dietro l’apparenza di strutture e forme strane si trovano spesso architetture di senso universali, ossia le storie che ci raccontiamo da sempre. È il suono della voce di Sherazād a ipnotizzare il re di Persia, più che le trame raccontate dalla serva. Ad ogni modo una duplice intenzione, in questo testo, l’ho trovata, ma a posteriori, quand’era bello che stampato e dunque “suonava” ormai da solo: da un lato c’era il desiderio di dimostrare, con le armi spuntate della letteratura, alcune ipotesi che vengono da altri campi, la fisica dei quanti e le impossibili teorie sul multiverso, ad esempio, dall’altro quello di portare a saturazione, al collasso, alcune influenze letterarie contemporanee ben ravvisabili da qualsiasi lettore cosiddetto “forte” nei sei racconti. Avevo, insomma, bisogno di fare spazio nella mia mente, nel mio immaginario e ho usato Malesangue per assassinare, con affetto, alcuni dei miei riferimenti. Ma anche qui, sarebbe per me più facile parlare di questioni di forma – e quindi la parodia, l’horror, il fantascientifico, la prosa poetica, la pseudocritica letteraria, l’editoria come genere letterario, eccetera – più che del senso generale di un’operazione studiata a tavolino. A tavolino, di un libro così, si può fare solo l’editing».

Quest’ultima risposta fa “risuonare” in me l’eco di una prominente matrice junghiana specialmente in relazione al tema dell’archetipo. Come a dire, in modo estremamente sintetico, che tutto è già in noi: il Puer e la Kore, l’Animus e l’Anima, la Luce e l’Ombra ecc. Eppure i protagonisti di Terrore, amore poi ancora terrore sembrano pescare prevalentemente dalla parte “negativa” degli archetipi, quella che Jung definirebbe l’Ombra appunto. Questa dimensione finisce per farli risultare irrimediabilmente scissi e, come molto spesso accade negli psicotici, inconsapevoli di esserlo. E, in effetti, nel testo spesso è venuta a farmi visita l’assenza del senso di realtà, spesso mi è sembrato di essere dentro un racconto delirante-allucinatorio (il che, detto da una che è e rimane comunque psicologa, è infinitamente affascinante). Mi chiedo allora: sono impressioni in linea con la comunicazione narrativa di Malesangue o sono entrata anch’io nella fiction pura?

«Jung è dentro di noi senza che ne siamo pienamente consapevoli (il che è molto junghiano, a dirla tutta). Scissi siamo tutti, la corsa che facciamo dall’inizio alla fine delle nostre esistenze è verso un’edizione completa di noi ed è anche quello che caratterizza credo tutti i personaggi del libro. Tutto sommato, è un’ammissione di scissione anche la scelta di far pubblicare questo testo a Malesangue invece che al tizio che porta il mio nome. Più che di assenza di realtà, comunque, parlerei di realtà altre, alternative, a volte solo invisibili e raggiungibili attraverso stati di delirio e allucinazioni. Il suggerimento che viene fuori dai sei racconti del libro è questo: non ci sarà in giro un’altra versione di noi, forse il negativo di quello che crediamo di essere? La scrittura, allora, è una forma rituale con cui avviciniamo o allontaniamo la possibilità di lambire queste realtà altre. Nel rito, spesso, s’indossa una maschera: in questo caso è stata quella del Malesangue».

Da dove nasce l’ispirazione per un testo così sperimentale e inusuale?

«Non so quanto sia davvero sperimentale o inusuale questo testo. Lo spiega bene uno dei personaggi dell’ultimo racconto, La passeggiata (un caso editoriale): la letteratura è certamente tra le arti più antiche, perciò ogni autore che ritiene di rinnovarla in realtà sta probabilmente replicando un esperimento fatto da chissà quanti altri prima di lui. Questo è però anche il grande fascino della letteratura: è sempre e comunque innovativa pur non essendolo più da millenni. E al tempo stesso, quando è particolarmente riuscita, non può che essere classica. Penso anche che oggi troviamo sperimentali molti testi che non abbiamo il tempo di leggere approfonditamente e che, altrimenti, ci parrebbero molto lineari. È che il nostro cervello si sta spostando verso altre forme culturali – e d’intrattenimento – che non contemplano più la lettura in senso stretto come capacità di decodifica alla base della loro fruizione. Più in generale – lo dico senza stracciarmi le vesti – la letteratura è oggi un’arte minore: ci sono campi in cui si sperimenta in maniera più curiosa, spontanea, interessante. E leggera, a volte».

Ci sono dei classici ai quali Malesangue si è ispirato? E se sì, quali e perché? E soprattutto si è trattato più di un’ispirazione o di un’interrogazione?

«I classici sono sempre quelli. I testi religiosi, ad esempio; e poi Moby Dick, il Don Chisciotte di Pierre Menard (non quello di Cervantes), l’Odissea, il Mago di Oz, la filosofia della scienza. E poi c’è la musica, di qualsiasi tipo, che diventa immediatamente popolare, e quindi classica, non appena viene ascoltata all’unisono da milioni di persone in tutto il mondo. Siamo coevi dei Radiohead, di Nick Cave e di Bob Dylan: cos’altro aggiungere? Trovo peraltro molto corretto parlare di “interrogazione” nel caso dei classici: li si evoca come fantasmi di antenati per sapere cos’hanno ancora da dirci sul nostro conto. A volte rileggendoli, altre – se si ha faccia tosta a sufficienza – provando addirittura a riscriverli. Il paradosso, però, è che i classici, in quanto tali, non ci sarebbe neppure bisogno di leggerli per assorbirli. Ad esempio, c’è un mio amico che non ha mai letto Moby Dick, eppure lo conosce meglio di me che l’ho riletto tre volte: un po’ perché – lo ammetto – gliel’ho raccontato io, un po’ perché “semplicemente”… è Moby Dick, diamine! È iscritto nel nostro codice genetico da prima che venissimo al mondo come specie».

Il titolo della raccolta sembra evocare (ne cito uno su tutti) l’Odi et amo di catulliana memoria, tuttavia con uno sbilanciamento sulla dimensione di Thanatos più che di Eros. Come mai questa dominanza? Perché il terrore prevale o, comunque, sembra farlo sull’amore? C’è in questo una connessione con la faccenda del malesangue che, tra l’altro, ricalca perfettamente il nostro siciliano malusangu?

«Sicilia e Puglia sono evidentemente vicine sul versante del malesangue. Nei racconti domina la parte del terrore e della paura della morte più che della morte in sé proprio perché ho puntato sul racconto di una parte scissa, dedita per lo più alla contemplazione dell’oscurità. Quindi sì, Malesangue non può che raccontare la parte buia, o semplicemente invisibile, di quello che siamo. Credo si debba sempre tenere a mente che c’è qualcosa di sinistro in noi, qualcosa che non definirei né negativo né positivo, forse un demone che a volte può essere tenuto a bada mentre altre no, uno spirito che sa molte più cose sul nostro conto di quanto saremmo disposti ad ammettere. Poi so perfettamente che viviamo in una società, per parafrasare certi meme a tema Joker, in cui è bene non parlare di stati depressivi e attacchi di panico o di ciò che ci portiamo dentro. Insomma, una parte di noi sa perfettamente che non siamo esattamente a nostro agio con noi stessi: in certi periodi delle nostre esistenze è come se fossimo dei glitch: apparentemente non funzioniamo, strippiamo, sembriamo delle interferenze rispetto al percorso stabilito, ma in quelle interferenze che possono nuocere – e tanto – sia a noi sia agli altri s’intravede qualcosa, un’altra versione di noi, appunto, forse quello che siamo davvero, però in un’altra dimensione, nel bene e nel male. È una questione di decodifica, di trasmissione giusta/sbagliata del segnale che emettiamo».

Come sintetizzerebbe le trame dei suoi racconti? Inoltre potrebbe dirci qualcosa di più delle biografie dei personaggi che le compongono?

«Per quanto accennato prima, credo sia inutile ridurre un racconto alla sua trama. La storia è la forma che prende, il senso è un’atmosfera, una palette di colori. Bartali di Paolo Conte è tutta nel primo verso – «E tramonta questo giorno in arancione» – più che nelle vicende del noto ciclista. Insomma, la storia è sempre tutta nell’esecuzione e la cosa bella della lettura, a differenza della musica dal vivo e delle arti performative – semplificando non poco – è che l’esecuzione spetta in parti ugualmente consistenti e ripartite tra chi scrive e chi legge. Inoltre, nel caso di questi sei racconti si tratta di trame piuttosto intricate che io stesso faticherei a riassumere, un po’ perché, come dicevo, ho l’impressione che il libro l’abbia scritto davvero un’altra persona, un po’ perché ho fiducia nel fatto che, una volta dipanati tutti i fili e gli intrichi, questi racconti restino comunque delle storie piuttosto semplici, i cui protagonisti vanno da A a B per risolvere un problema, acquisire una certa consapevolezza o conquistare l’amore. Ed eccoci quindi a loro, ai personaggi: alcuni vengono da altri libri miei e chi li ha letti non farà fatica a riconoscerli; in generale, comunque, invito a interpretarli come si farebbe con le particelle della meccanica quantistica: esistono solo se osservati, soprattutto esistono solo nell’interazione. Un po’ quello che succede a tutti noi».

In effetti tra le storie sembra esserci un legame a volte in continuità, altre volte in discontinuità? Dunque questi sei racconti dialogano in qualche modo tra di loro o è solo un’illusione del lettore?

«È assolutamente così: i racconti, e non solo con quelli all’interno delle pagine ma anche con altri – anche altrui – che stanno fuori, in rete e chissà dove, dialogano tra loro in modi spesso molto misteriosi anche per l’autore. Per chi vorrà trovarli, gli indizi sono disseminati ovunque nel libro. Certo, alcuni collegamenti potrebbero apparire rotti, dei vicoli ciechi pieni solo di immondizia, cartacce e olezzo di deiezioni randagie, ma anche in un link rotto si può riscontrare un certo desiderio di connessione, la volontà di andare oltre la forma chiusa di una storia che inizia e finisce come da copione. Alcuni racconti poi sono generati da piccole porzioni dei racconti precedenti, come pezzi di materia staccatisi da un asteroide per portare vita su un altro pianeta o come spin off cinematografici prodotti con budget piuttosto bassi. Non so esattamente dove avrebbe potuto condurmi questo tipo di processo creativo – sarebbe potuto andare avanti all’infinito – ma certamente è stato tanto pazzerello quanto divertente».

Anche la dimensione spazio-temporale sembra scomporsi per agguantare un senso nuovo, o meglio, alternativo delle storie narrate. Non ha, dunque, senso cercare di scovare un ordine spazio-temporale lineare che aiuti a dare struttura al racconto? Sempre se di racconto, al singolare, si può parlare.

«Su un piano extra-letterario risponderei che no, non ha senso cercare ordine o leggi naturali laddove è chiaro che non c’è altro che lo scompaginamento di ogni dimensione spazio-temporale e una evidente non-località dell’esistenza. Solo che queste idee la nostra mente non è in grado di afferrarle, al momento, e allora abbiamo bisogno di qualcosa che ci aiuti a trovare un senso. A questo servono tanto la scienza quanto l’arte che, per qualche strana ragione, teniamo separate da ormai troppo tempo. Di conseguenza, su un piano artistico e letterario – paradossalmente più pragmatico rispetto alle nostre esistenze quotidiane – direi che andrebbe sempre cercato un ordine, una struttura, quantomeno un pattern ricorrente, proprio per metterci al riparo dal caso – ben diverso dal caos! – che è fatto sempre di necessità e mai di intenzionalità o desiderio. D’altra parte l’esperienza umana non può che essere tradotta e rappresentata in modo lineare, sequenziale (mai simultaneo), dunque ordinato. Anche solo per questo, sono convinto che persino Terrore amore poi ancora terrore sia un modo per fare e dare ordine all’universo, nonostante la destrutturazione e l’apparente stranezza».

Possiamo azzardare l’affermazione che siamo dentro un esperimento alla Mulholland Drive?

«Non ho guardato molto di Lynch, ma come dicevo prima a proposito dei classici, Lynch è ovunque, senza bisogno di guardarlo. Quindi concluderei che sì, siamo decisamente in un esperimento di David Lynch, e ben al di là di questo libro di Malesangue».

Può dirci qualcosa di più sulle splendide copertine? Prima e quarta sembrano proprio ricalcare il senso delle storie, apparentemente tutte scomposte, in realtà, tutte intercorrelate a formare un quadro integrato e disordinatamente coerente?

«Posso solo dire che l’illustratrice, Vincenza Peschechera – che peraltro non conoscevo – è stata molto brava e che bisognerebbe sempre avere delle copertine illustrate o, se proprio non è possibile, delle copertine interamente bianche o nere, o fucsia, o turchese. Voglio dire che le copertine fotografiche, specie quelle con ritratti di volti in primo e primissimo piano, rubano terreno all’immaginazione di lettrici e lettori. Meglio evitare».

– Un’ultima domanda da addetta ai lavori: cosa ha portato la casa editrice a scegliere di puntare su un testo “statisticamente” poco comune e, soprattutto, che risposta hanno dato i lettori?

«Per parte mia, che ho pubblicato solo con piccoli editori, credo che a loro spetti l’onere e talvolta il piacere della ricerca e della sperimentazione, specie in un momento in cui abbiamo una forte massificazione del mercato da parte dei grandi editori/distributori; inoltre immagino che questo sia anche un modo, forse l’unico, per posizionarsi e tentare di essere visibili all’interno del mercato stesso. Sempre per parte mia potrei anche stilare un elenco di rifiuti ricevuti da parte di piccoli editori che, al contrario di LiberAria, erano letteralmente terrorizzati – è proprio il caso di dire – da una scrittura come quella di Malesangue. Dico tutto questo senza l’intenzione di innescare la classica retorica dello scrittore oscuro e quindi rifiutato, sfigato, eccetera, che trovo decisamente infantile. Ciascuno in cuor suo sa di che morte deve morire e legittimamente la evita e l’allontana il più possibile. Così è anche per i lettori».

Cosa aggiungere ancora? Forse due (banali) osservazioni. La prima è che, nonostante il persistente stato di smarrimento dinnanzi a questa lettura, mi viene da dire che a volte il valore di un testo non sta nelle certezze che riesce a darti, ma nelle finestre di pensiero (e, forse, in questo caso di accesso ai multiversi) che riesce ad aprire. In questo senso Terrore, amore poi ancora terrore ha centrato pienamente l’obiettivo e Malesangue si presenta come un abilissimo prestidigitatore di parole e di storie. La seconda mi è venuta in mente ripensando alle parole di Pietro Citati – «Se vogliamo conoscere il senso dell’esistenza, dobbiamo aprire un libro: là in fondo, nell’angolo più oscuro del capitolo, c’è una frase scritta apposta per noi» – e che mi porta a voler chiudere questo mio contributo con la frase che Malesangue in questa sua opera pare abbia scritto apposta per me. 

Se hai avuto la fortuna d’incontrarti almeno una volta nella vita, allora per tutto il tempo che ti rimane sarai da solo con quello che hai imparato a fare, con quello che di te hai coltivato. E quello e nient’altro che porterai in giro, dopo l’adolescenza […] in quella che è l’età adulta e l’età adulta è: fare i conti con le conseguenze di quello che hai fatto e di quello che non hai fatto.

A ognuno di voi la sfida di capirci di più, magari scovando nell’angolo più oscuro del capitolo la frase scritta apposta per lui.

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