È un romanzo autobiografico, “Una vita vera” di Brandon Taylor. La storia di un aspirante biochimico fotografata in un lungo weekend, in cui fa i conti – forse definitivamente – con disagi e paure, legate al razzismo, all’omosessualità, alla provenienza dal Sud degli States e a una storia di abusi che risale all’infanzia…
Un diploma allo Iowa Writer’s Workshop – da lì è passata gente come Flannery O’ Connor, Raymond Carver, Kurt Vonnegut, John Irving, T. Coraghessan Boyle – dopo aver mollato gli studi da biochimico. Il curriculum di Brandon Taylor, statunitense, poco più che trentenne, è presto fatto. E fa capire anche che il suo primo romanzo è un’autobiografia non troppo camuffata. La vita e lo studio nei college americani è stata oggetto di svariate opere (La trama del matrimonio di Jeffrey Eugenides è un gran bell’esempio; non riuscì a resistere neanche Tom Wolfe, scrivendo Io sono Charlotte Simmons) e Una vita vera (283 pagine, 21 euro) di Brandon Taylor, pubblicato in Italia dalle edizioni Codice grazie alla traduzione di Gioia Guerzoni, si iscrive a pieno titolo in questa tradizione.
Nero nel microcosmo bianco
L’obiettivo dello studente Wallace, nero, omosessuale, originario di una piccola città dell’Alabama, dunque del Sud, è conseguire il dottorato in biochimica, in una non meglio precisata università del Midwest. Fa i conti con vari episodi di un onnipresente razzismo, nel microcosmo essenzialmente bianco dell’ateneo (e fuori dal quale, sembra di capire, c’è la vita vera), e con i fantasmi del passato, recente e non, la morte del padre (al cui funerale decide di non partecipare) e ricordi di abusi sessuali. Traumi e dolori privati si intrecciano alla quotidianità accademica: lezioni, studio, esami, pettegolezzi. A chi, dopo più di metà romanzo, che si svolge in un lungo weekend, non capisse davvero di che pasta è fatto Wallace, basterebbe leggere queste righe, in cui è proprio lui a parlare (a letto con Miller, silenzioso e apparentemente burbero, enigmatico collega che si professa eterosessuale e invece…):
Preferirei essere solo. O meglio, vorrei essere il tipo di persona che preferirebbe essere sola. Difficile stare con gli altri, perché spariscono, o muoiono. […] La gente muore prima che tu possa conoscerla. E poi ti metti a pensare, e se… e se…
Finale aperto, tra violenza e sogni
Quello di Brandon Taylor è un romanzo singolare, notevole – con qualche ingenuità in certi dialoghi, con alcuni squarci gotici, dal finale aperto – perché affianca a una dettagliata, e si potrebbe dire quasi scientifica, analisi psicologica, cioè a un viaggio nella mente e nelle ferite del protagonista, il dispiegarsi delle emozioni più incontrollabili e intime, un mix di esattezza e sensibilità non semplice da rintracciare in uno scrittore al debutto. Interessante l’evolversi di Miller, personaggio che finisce per inchiodare Wallace – con il quale si sono reciprocamente raccontati tutto – per sbattergli addosso quel che quasi ogni lettore pensa.
Sei sempre dispiaciuto, vero Wallace? Anche gli altri hanno dei problemi, sai. Anche gli altri hanno paura.
È solo l’antefatto di un epilogo fatto di violenza, dolore, amore, disperazione, sogni di una vita condivisa.
Forse è per questo che la gente sta insieme. La condivisione del tempo, della responsabilità di ancorarsi al mondo. La vita è meno terribile, quando puoi riposare per un attimo, abbandonare tutto e restare sospeso senza preoccuparti di essere spazzato via. Ci si prende per mano tenendosi stretti e si può lasciare la presa. sapendo che l’altro non lo farà.
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