Un uomo nel labirinto della propria inesistenza e la borghesia francese tra fine Impero e Restaurazione sono i protagonisti de “Il colonnello Chabert” di Honoré de Balzac, romanzo breve che fa pensare, per ragioni diverse, a Poe, Dumas, Pirandello…
Padre ingordo d’ogni Vietnam – e prima ancora che accadesse Waterloo – il tonfo dell’impero napoleonico incanutisce una testa orrendamente sfregiata come solo l’onore può essere, tuttavia affilando cronache e vaticini di Balzac. Nel Colonnello Chabert (1832) la lente limita ed espande il campo di lettura dell’esegeta fustigatore della giovane e già bolsa borghesia francese che si ingrassa, consapevolmente ignorante del proprio cammino, tra fine Impero e Restaurazione, mirando al petto nudo di un ufficiale annientato anche oltre il possibile, che è la morte. A quella, Chabert scampa facendosi aria e largo tra i cadaveri di una fossa comune del campo di sangue di Eylau dove ha combattuto al fianco di Murat; non così il suo anagrafe impietoso e frettolosamente liquidato in rendite e azioni di borsa dalla moglie, che frattanto ha sposato un altro, tanto ambizioso quanto emarginato dai circoli di corte.
Il denaro e l’ambizione femminile
La lente di Balzac punta ma resta grandangolo inflessibile sui temi assiomatici del grande narratore francese: la potenza virulenta e assieme fiacca del denaro, inodore tanto a modi di conquista quanto, almeno oltre i cerchi magici inferiori, alle nari dei circoli di corte restaurati, che si riscoprono elitari e rattrappiti nei propri privilegi riconquistati; il ritratto dell’ambizione femminile nella Parigi dell’Ottocento rampante e già decadente. Quel volto è incarnato dalla pseudo vedova nobile parvenu, che senza scrupoli e gentilezze condanna il marito dato per spacciato all’eterna miseria e – peggio – al misconoscimento identitario. È consegnato inappellabilmente alle cronache (e alla letteratura eterna) dalla civetteria ipocrita con la quale la signora tenta un estremo raggiro nei confronti del colonnello ormai persuaso a riprendersi ciò che gli appartiene.
Il bivio
Lì, nel mattone esatto del belvedere privato dal quale a lei esprime disprezzo per bocca del proprio protagonista, sta il bivio sul quale Balzac imbocca la consueta strada dell’etica ferita ma rediviva. Accentua, calca, sottolinea, ricacciando ogni ambizione nell’onore sconfinato e (pare al mondo) sconfitto. Chabert non si riprende nulla, torna a essere il mendicante Giacinto, offeso ancora una volta a propria insaputa dall’ennesima mancanza egoista della contessa che un tempo aveva amato: la cresta sulla parcella dovuta all’avvocato che s’intesta, unico a prestargli fede, la battaglia del colonnello frettolosamente sepolto. E che lo giudica financo male finché la più piccola delle catastrofi, l’unica di segno buono e dunque ininfluente dell’intera narrazione, non viene a sciogliere l’equivoco, il più piccolo e trascurabile: la mancata corresponsione delle spese legali e dei denari prestati all’indigente colonnello, sventata dopo mesi da un fortuito incontro in tribunale.
Un generale nel labirinto della propria inesistenza – mai medagliato come tale a dispetto dei diritti di battaglia – è il risultato umano che si rispecchia nella pienezza del vuoto che il colonnello misconosciuto imbriglia ormai vecchio negli ultimi suoi giorni d’ospizio.
La strada etica e l’osservatore limpido
La strada etica, che ad alcuni – pur senza insidiarne l’enorme grandezza – non smette di suscitare legittime perplessità sul Balzac inventore di storie nelle sue declinazioni stilistiche, trova anche qui il proprio genio, nelle pieghe quasi tolstojiane del comprimario/coprotagonista osservatore disinteressato e, nei fatti, limpido: unica polla trasparente all’occhio nella melma della società che Balzac mette alla berlina. Si tratta proprio dell’avvocato, nodo di sutura fra i due mondi di sotto e di sopra, dei nessuno e dei qualcosa, di Chabert e della disinvolta moglie.
In anticipo sul Premature Burial di E. A. Poe, Balzac risuscita dalla terra spalata un morto che però tale resta; in antitesi filosofica se non storica, pensa un Nortier dumasiano privato dei trampoli sanguigni dell’onore riconosciuto e della pulsione politica, eviscerato delle passioni. E in profetico occhiolino alla storia futura – pure del pensiero e della letteratura – sforna un Adriano Meis d’umore e rumore, moventi e comportamenti opposti al Mattia Pascal. Sano lui, folle l’attorno come in Pirandello. Ma bacato, incerto di sé pure senza nome, mai.
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