A centotredici anni dalla sua nascita – oggi l’anniversario – un ritratto di Tommaso Landolfi e del suo enigmatico, oscuro e per molti versi perturbante e favoloso percorso letterario: una delle più alte testimonianze nella letteratura italiana del Novecento
Chissà cosa avrebbe detto il buon Tommaso Landolfi del vacuo tentativo di uno scritto celebrativo in suo onore in occasione di una ricorrenza, in questo caso il centotredicesimo anniversario della sua nascita, lui così appartato, schivo, un minore secondo la definizione che Deleuze e Guattari daranno anche di Kafka, un autore per molti versi assimilabile all’autore picano: «Una letteratura minore non è la letteratura di una lingua minore, ma quella che una minoranza fa di una lingua maggiore»; uno scrittore che si faceva fotografare con i gufi, oscuro, notturno, lunare, la luna il suo astro di adozione al quale riesce a parlare al pari dei grandi romantici europei: Leopardi, Novalis, Rilke, Wordsworth, inclassificabile, uno che nella mimesi letteraria parlerà di se stesso dicendo «Stare tra i propri simili è ben detto: se però uno non ha simili?» (Cancroregina, 1950), uno scrittore sul quale è ovviamente stato scritto tantissimo e sviscerato altrettanto sul suo inimitabile stile e che in questa evenienza può essere ricordato semplicemente in modo elegiaco, un autore che a dispetto del solo parziale pubblico riconoscimento nel panorama letterario, è stato inserito dal celebre critico Harold Bloom nel suo canone occidentale.
Tenebre e romanticismo, ma anche ironia
Nato nel 1908 a Pico, il piccolo paese del frusinate al quale nel Cinquecento, dopo l’insediamento della nobile dinastia dei Farnese, fu cambiato il nome in Pico-Farnese, nell’ “avito maniero” che tanta importanza avrà nella sua opera e che ricorda il leopardiano palazzo del Conte Monaldo (le affinità tra il genio recanatese e Landolfi non si limitano certo alla loro origine aristocratica e al relativo isolamento che tanta importanza avrà nella loro formazione letteraria), scomparso l’8 luglio di quarantadue anni fa nel borgo della Tuscia viterbese Ronciglione, la fortuna critica di Tommaso Landolfi ha subito nel corso degli anni alterne fortune. Un corpus interpretativo poderoso che si è fregiato di costanti e riguardevoli contributi quali quelli di Carlo Bo, Giacomo Debenedetti, Edoardo Sanguineti, Giuseppe De Robertis, Giorgio Agamben, Oreste Macrì, Gianfranco Contini, Vittorio Sereni (solo per citarne alcuni) fino ai più recenti fra i quali quelli di Andrea Cortellessa.
Landolfi è uno scrittore tenebroso, come Poe, Hoffmann, Lovecraft. Nei suoi scritti si respirano gli echi del romanticismo più umbratile e metafisico quale quello tedesco (del quale Landolfi è stato in alcuni casi traduttore) ma è anche capace di bilanciare la riflessione esistenziale con l’ironia e la leggerezza che costituiscono la principale porta di accesso al fantastico nella letteratura italiana del Novecento (basti pensare a Calvino), per quanto Landolfi non possa essere propriamente incasellato nel genere fantastico. È quell’ironia di chi si ostina a credere che dietro la sua maschera si nasconda il pensiero che la letteratura sia una cosa seria, la stessa cosa che accade nella letteratura settecentesca e ottocentesca (uno dei modelli soprattutto a livello stilistico dello scrittore picano) e soprattutto dall’amato (e da lui tradotto) Gogol, parlando del quale Landolfi potrebbe citare ciò che Dostoevskij (altrettanto tradotto da Landolfi) ebbe a dire circa l’autore di I Racconti di Pietroburgo: «Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol».
Tra la poesia e un fantastico lambito
Ogni riflessione profonda viene quasi sempre frenata da una battuta, l’angoscia si intreccia al sarcasmo che però non arriva mai a soffocare il sentimento e la raffinatezza filosofica della prosa poetica dei suoi romanzi brevi, dei racconti, genere al Nostro più congeniale (testimonianza la forma breve della sua vocazione lirica), perché Landolfi è anche poeta tout court come testimonia oltre che lo stile verticale della sua prosa anche le due raccolte poetiche, non dei semplici intermezzi nella sua produzione, come Viola di morte (1972) e Il tradimento (1977, Premio Viareggio), alle quali potrebbe essere aggiunto anche Breve canzoniere (1971), romanzo dialogato con inserti lirici in forma di quindici sonetti.
L’etichetta di scrittore fantastico va stretta al Nostro, non potendo essere ascritto a Landolfi tutto l’armamentario del genere, soprattutto ottocentesco fatto di fantasmi più o meno “reali”, case stregate e vari esseri soprannaturali. Il suo è piuttosto un lambire il genere in varie e diverse occorrenze e scopi, non ultimo l’autobiografismo presente in tutta la sua opera, servendosi della sua particolarissima tecnica e stile, nell’irriducibile e ricercatissimo utilizzo delle parole scandagliate fino alla loro genesi.
Uno studio critico su Tommaso Landolfi (e ce ne sono stati) non può prescindere da accurate analisi lessicali sulla materia prima delle sue opere, appunto le parole. In Landolfi nome e cosa reale coincidono. Da questo nominalismo derivano conseguenze dirimenti in tutta la sua poetica. Nel ricordo della sua infanzia e della sua prima formazione umana e letteraria trascorsa nel Collegio Cicognini di Prato (lo stesso dove è stato il giovane D’Annunzio) nel quale è avviato dal padre (la madre mancherà quando il futuro scrittore avrà solo un anno e mezzo) Landolfi scriverà in Prefigurazioni: Prato, contenuto nella raccolta di racconti e articoli dal titolo Ombre (1954). Qui dirà:
Perché io allora avevo una sorta di religioso, e superstizioso, amore e terrore delle parole (che mi è rimasto poi a lungo), sulle quali concentravo tutta la carica di realtà… le parole erano quali le mie sole realtà. Sugli oggetti dunque che queste dei miei compagni, non posso qui dire designavano, insomma sottintendevo o si traevano dietro come accidenti, sarei anche stato disposto a chiudere un occhio, ma sulle parole!
Tra familiarità e distanza
Lo stile classicheggiante che si respira in tutte le pagine lascia alla lettura un sentimento di estrema familiarità e precisione e allo stesso tempo di oscurità e distanza, una cosa rara da trovare in qualsiasi altro autore. La continua ricerca di parole morte (solo in apparenza), inattuali, come è del resto la parola poetica, che viene da una distanza, vanno a comporre un lessico mai banale, ricercato e prezioso, in ossequio alla sua idea di una letteratura pura. Scriverà in Gogol a Roma (1971), raccolta di mini saggi critici usciti sul «Mondo» fra il novembre 1953 e il marzo 1958: «La letteratura non può avere la funzione di acquaio di angosce» (il riferimento è a Beckett), e quindi la sperimentazione, il peso calibrato delle parole, il suo interrogarsi sul rapporto tra significante e significato, anticipando e cavalcando con l’unicità del suo linguaggio tutte le tendenze del Novecento, la pura forma verginale della Parola, della lingua poetica della natura, il vario bestiario che occupa le sue narrazioni ne è la prova, quasi a voler dire che solo negli animali o nei folli, come nei bambini, vi è una qualche forma di purezza; lo straniante e quasi francescano dialogo di Gurù con gli animali sul monte dove avrà luogo la sua trasformazione in La Pietra lunare (1939) sembra suggerirlo. È un senso quasi “religioso”, è l’assiuolo di Night must fall, (in Dialogo dei massimi sistemi, 1937) con il suo «accumulare quante più note può torcendole, sdilinquendole allungandole arrotondandole a non finire», con il linguaggio infantile da fanciullino pascoliano, salvo con il progredire dell’età accorgersi «di tale vita antiassiuolesca che mi ha impedito di diventare un grande scrittore».
Un’avventura di invenzioni linguistiche
La sua è una ricerca della purezza del linguaggio, fino ai territori del preverbale o alle primigenie origini di una lingua desueta, di «una parola rara», «elaborata da millenni», l’inizio di La Passeggiata contenuto in Racconti Impossibili (1966) è in tal senso emblematico; l’utilizzo di antiquate espressioni avverbiali ed espressioni idiomatiche, il suo parlare in glossa dirà Giorgio Agamben (Landolfi è definito anche glottoleta), parlare cioè con parole estranee all’uso presente scegliendo alcune parole perché vibrassero nella testa di chi legge, come un bagno di campane tibetane. Celebri sono i neologismi landolfiani, con fughe nei linguaggi del provincialismo e regionalismo, con termini presi a prestito e variamente rivisitati dal toscano, frequentato ampiamente dal Nostro, dal romano, dal napoletano, un’avventura linguistica che merita (come del resto avvenuto) studi e approfondimenti sul glottoleta Landolfi, inventore di linguaggi e di costrutti sintattici che partendo da una prosa ottocentesca creano uno stile inimitabile, avvolgente, misterioso e evocativo di una sopra-realtà, caratteristica fondante di tutta la sua opera che è anche una presa di distanza in forma ironica dalla letteratura a lui coeva e da se stesso. Scriverà nelle pagine di uno dei suoi scritti diaristici (Rien va, 1963, frutto del suo diario del periodo 1958-1960): «Ma questa è già una divagazione», «Ma il discorso mi è già venuto a noia» «Ma dio altra volta, per oggi ahimè basta», un uso delle avversative che è una presa di distanza dalla presunta veridicità del diario stesso. E come non citare la capacità di riassumere in una parola fantastica un’intera immagine straordinaria come in Cancroregina (1950):
«Il porrovio! Che bestia è il porrovio? Mi duole dire che io stesso non lo so, e la medesima cosa mi capita con la beca. Lui ha un’aria tra il tapiro e il porco o il babirussa, è quasi senza collo».
Oppure il dente di cera giassa che compare nel racconto Il dente di cera nella sezione Teatrino di Il mare delle blatte (1939), e il domandarsi del lettore (con il quale Landolfi è maestro insuperabile nell’instaurare un rapporto di intrinseca complicità fatta di ammiccamenti e suggestioni) cosa significhi quel giassa, e da lì si apre un mondo di richiami e un percorso nel profondo delle parole morte e desuete che diventano un centro di irradiazione potentissimo. La minuziosa ricerca lessicale è quindi anche una riflessione sulla letteratura come emerge più chiaramente nelle sue opere diaristiche.
Due fasi del percorso
Il percorso letterario di Landolfi può essere diviso in due fasi, quello narrativo e “fantastico” degli esordi degli anni Trenta con i suoi primi racconti che appariranno sulle riviste dell’epoca (soprattutto fiorentine), con la prima raccolta Dialogo dei massimi sistemi, e quello diaristico e più esplicitamente auto biografico degli anni Cinquanta e Sessanta, sebbene come giustamente osserverà Cortellessa in un suo saggio si può parlare in Landolfi di un autobiografismo fluido che attraversa tutta la sua opera.
Vista l’eterogeneità dei contenuti e delle stesse forme espressive, dai racconti ai romanzi brevi, da scrittore per l’infanzia con Il Principe infelice (1954) e La raganella d’oro (1954), fino a opere teatrali quali Landolfo IV di Benevento (1959) che ricalca il “sepolcrale” Foscolo o l’Adelchi manzoniano, e Faust 67 (1969) piccolo misconosciuto capolavoro nel quale l’umorismo landolfiano emerge con forza in un’opera che è un po’ l’antitesi dei sei personaggi pirandelliani (ove in luogo di interpreti che cercano una parte da recitare è invece presente un signor Nessuno che non ha alcuna storia da rappresentare), tale divisione in periodi è quindi più didascalica e funzionale a un’analisi critica del percorso umano e letterario dell’autore che necessaria alla decriptazione del verbo stilistico e contenutistico della sua opera. Le due fasi e percorsi si intersecano e si contaminano con alcune ricorrenze e specificità quali l’autobiografismo, che se formalmente esplicitato nelle sue opere diaristiche (che sono anche molto altro) già è presente in modo preponderante e debitamente occultato e dissimulato nella sua scrittura “fantastica”, quindi in realtà una falsa opposizione, perché anche il Landolfi diarista in fondo non è che impegnato nella redazione dei suoi “diari impossibili”, salvo ritornare a sua volta e in contemporanea alla sua straniante e “fantastica” narrativa e ai suoi Racconti impossibili.
Tommaso Landolfi nel suo enigmatico, oscuro e per molti versi perturbante e favoloso percorso letterario parla di sé, non prescinde dal suo percorso umano, il Landolfi più o meno plagiario di inglesi, francesi, degli amati russi dei quali sarà attento traduttore, il fuori dalla storia, il reazionario, il disimpegnato, cinico e pedante nel linguaggio, il glottoleta, il creatore di neologismi, tanta critica lo ha tratteggiato in questo modo. Giocatore accanito, funambolico e fumista scrittore, romantico dandy così vicino stilisticamente agli scrittori dell’Ottocento, Gianfranco Contini lo definirà un “ottocentista eccentrico in ritardo”, avviato alla letteratura nel periodo di crisi novecentesco nel quale sia nell’uomo che nelle arti diviene evidente quello scarto tra l’io e il mondo e lo smacco al quale è destinato il linguaggio che dovrebbe rappresentarlo.
Gli anni della sua educazione letteraria sono quelli fiorentini dove studierà dal 1929 al 1932, la conoscenza dei caffè letterari dove si svolge il suo apprendistato, le conoscenze dei compagni fondamentali per la sua formazione, Carlo Bo, Renato Poggioli con il ricordo affettuoso che ne darà Landolfi: «Tolta qualche partita a bigliardo, la nostra unica e beata occupazione era parlare di letteratura, lì per i vari caffè nei quali ci si faceva addirittura rinchiudere, lì era la nostra università».
La letteratura come oblio
È l’ambiente nel quale si fanno strada quelle istanze delle quali Landolfi si fa superbo interprete interrogandosi sulla stessa letteratura che in nessuno come lui è oblio, mascherata su ciò che è la realtà. Landolfi si muove tra la chiarezza e l’oscurità , la circolarità dei suoi racconti (come in Poe) parla di una quotidianità pigra e malinconica alla quale subentra il fantastico che sembra riscattarne l’inedia, ma il fantastico diventa incubo mostruosità, per poi tornare al punto iniziale in una sorta di metafisica stasi. Le sue invenzioni vanno a scandagliare l’oscuro rovescio del reale, sono un continuo interrogarlo e soprattutto sono una profonda riflessione sulla morte sulla quale è incentrata tutta la sua opera con quel tanto di autobiografismo che la contiene.
«Si nasce e si muore della stessa matrice» scriverà in Cancroregina che è l’autoesilio a bordo di un’astronave verso un altrove irraggiungibile, una piccola odissea di un uomo che si trova a tu per tu con se stesso, e ancora nello stesso romanzo breve del 1950: «Un uomo che ha giocato, ha perso e ha provato di vincere», mentre in La Bière du pecheur (1953): «Un tempo avevo persino dichiarato guerra, alla vita, perché da lei mi sentivo escluso. Ma ora! Ora non ho più neppure questo stupido orgoglio».
Il tema del gioco, una sorta di “allergia esistenziale”, è ricorrente in tutta l’opera landolfiana, basti pensare appunto a La Bière du pecheur ed è la più fulgida testimonianza di una vita a perdere, di un fallimento geneticamente instillato nell’uomo e nel suo essere nel mondo (l’esser-ci heideggeriano), il cui destino è appunto l’essere per la morte. I dadi sono stati lanciati, il colpo è nullo nel gioco della vita, Rien va attingendo al titolo del suo secondo scritto diaristico del 1963.
Il vizio del gioco, la ferita originaria
Tutto in Landolfi sembra originarsi da un lutto, effetto o causa della nevrosi, della sua ripulsa per la vita e tendenza all’autodistruzione che trova espressione nel vizio del gioco, la ferita originaria, la morte iniziale ben espressa nell’immagine del camposanto che apre il racconto Maria Giuseppa, suo primo racconto ed esordio letterario del 1930 in rivista su Vigilie letterarie e successivamente inserito come racconto di apertura della sua prima raccolta Dialogo dei massimi sistemi. L’inizio con la morte racconta anche dell’impossibilità del linguaggio di cogliere la realtà, uno scarto ontologico che non è altro che la morte del principio di realtà e la necessità con la Parola, della quale Landolfi è un fine ricamatore, di abbandonare le sponde sicure del quotidiano (la vita “antiassioulesca”), il certame della terra e del sole, espressione nel ruolo prevaricatore e soverchiante del Padre (tematica ben presente nel poema drammatico Landolfo IV di Benevento), della ragione predominante, per navigare come Roberto Coracaglina in Il mar delle blatte (1939) verso un’ ignota e lunare avventura. Lo stesso tema del liberare le vele, il tema dello svuotarsi, dell’evacuazione, lasciandosi indietro la fastidiosa zavorra che impedisce la scrittura che è un tema ricorrente anche in Night must fall, il racconto finale di Dialogo dei massimi sistemi, che rende sulla pagina il sublime riverbero della sua poetica dell’abbandono.
Il tema della morte trova nella sua opera diverse esplicitazioni e occultamenti come si confà alla sua poetica dell’ambiguo e del nascondimento, come in Le Labrene ove nel racconto eponimo della raccolta (1974) questa è rappresentata negli occhi «tondi, sporgenti e lucenti» dei piccoli rettili con i quali si trova a fare i conti il protagonista, morte che è in Landolfi anche pre-visione come si confà alla struttura circolare dei suoi racconti, cerchi chiusi, buchi neri che tutto contengono e assorbono nella loro sovra-realtà. Pre-visione è il ricordo di una foto in braccio alla madre quando ha un anno e l’ombra che fa il braccio di lei indica la fossa dove da lì a poco sarebbe stata messa, quando si parla dell’oscuro rovescio del reale nella poetica landolfiana, come detto, non si può prescindere dai dati autobiografici.
La morte corteggiata
Il languido corteggiamento della morte landolfiano, macabro e sensuale con quell’insieme di fascino e ripulsa come in La Pietra Lunare nell’incontro di Giovancarlo con Le Madri, e il gelo che emana come un fluido intenso dai loro occhi grigi e senza riflessi è ricco di implicazioni psicanalitiche da approfondire altrove e che non possono bastare alla semplice esplicitazione della coppia oppositiva Eros-Thanatos o del desiderio di un ritorno allo stato pre-uterino, con la consapevolezza che « Neppure la morte basta alla vita e all’eternità: e che cosa ci vuole allora? O dove altrove troveremo il vero? Il necessario?» (Viola di Morte).
Anche la scrittura in questa accezione diventa eterno corteggiamento dell’ineffabile, espressione di uno scarto non tanto linguistico quanto ontologico che mette in gioco la stessa rappresentabilità del mondo e la resistenza della lingua che impedisce di suonare una singola nota onnicomprensiva, ed ecco che ritorna l’immagine dell’assiuolo capace di rinnovare continuamente la stessa identica nota senza perdere di vitalità. Costante delle sue confessioni “diaristiche” e delle sue “fantastiche” creazioni narrative sono la rimessa in discussione dell’unica opera di salvezza che pare esserci, cioè la letteratura, minandone la credibilità e affidabilità nella rappresentazione della realtà, riducendola a un opaco mondo di ombre e ambiguità, o puro divertissement (quale è stata più volte comunemente catalogata l’intera opera landolfiana); l’essere tornato dopo un quarto di secolo dopo con La vera storia di Maria Giuseppa, ripresa e inversione del racconto Maria Giuseppa che apre i Dialoghi dei massimi sistemi ne è la prova.
Nell’analisi landolfiana sulla morte, sul mistero della vita e sulla letteratura come tentativo destinato al fallimento di indagarne i contorni, assume grande rilevanza, tanto da assumere un ruolo preponderante di ricorrenza in tutta la sua opera, la riflessione sulla femminilità, scevra da qualsiasi connotato diremmo sociale e tantomeno romantico-sentimentale, ma una riflessione più profonda e archetipica, potremmo dire metafisica ed esistenziale. La donna tratteggiata nell’imago nera di Landolfi è ben lontana dall’ideale romantico ed è espressione di una femminilità e sensualità malata, deforme, perturbante, perversa, sbilenca, misterica e minacciosa per quanto poetica.
La donna
La comparsa della donna o di una voce femminile con la sua sensualità perturbante è quasi sempre improvvisa, voce femminile che per esteso può essere considerata una trasfigurazione e allegoria della voce letteraria, basti pensar alla Gurù di La Pietra lunare o alla Lucia di Racconto d’autunno (1947), alla figura della “donna nella pozzanghera”, tema e sviluppo del racconto La piccola apocalisse in Dialogo dei massimi sistemi (l’apocalisse è proprio il palesarsi di questo scarto). È la donna chimera e allo stesso tempo evocazione e immagine di una realtà edenica e archetipo materno nelle varie declinazioni: moglie, sorella, figlia, fino alla donna “tangente” del racconto Gli Sguardi in Tre racconti, o la donna-animalino come descritta in Stazioni morte in Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, raccolta di racconti e articoli pubblicata per la prima volta da Rizzoli nel 1982.
La femminilità in Landolfi è anch’essa espressione dell’oscuro rovescio del reale; creature avvolte nel mistero come l’indecifrabile Ella di La settimana di sole (Dialogo dei massimi sistemi) o la misteriosa ed evocata Lucia di Racconto d’autunno che potremmo definire la risposta landolfiana (e in quanto tale incerta e deformata) a I Sentieri dei nidi di ragno di Calvino, per la collocazione storica, la guerra e sullo sfondo la lotta partigiana e l’ambientazione silvestre e notturna del racconto. In altri casi si tratta di ibridi come l’ermafrodito Rose nel racconto omonimo contenuto in A Caso (1975), raccolta che varrà al Nostro il Premio Strega dello stesso anno, la Gurù capra-mannara, il seno con un buco, la “sgretolata muraglia” in Petto di Donna (A caso) la “mammella avvizzita” di Maria Giuseppa, tutte figure chimeriche e perturbanti, espressione di una profonda riflessione che non può prescindere da implicazioni di tipo psicanalitico e coloriture metafisiche. È l’immagine evocata delle donne astrali, “di lassù”, che infondono un senso infinito di pace (Il regno delle Madri) al contrario delle donne terrene, “le donne di quaggiù”, inquinate e corrotte ma nelle quali rimane comunque una traccia del mondo superno, questo il motivo della pietà che suscitano, una pietà che arriva all’estremo consiglio dell’uxoricidio, dell’infanticidio, mezzi più o meno prolissi in quanto speculativi (e in Landolfi meramente letterari) per rendere queste creature pure e innocenti alle loro sedi originarie, come nell’esito paradossale e terrificante in La muta (Tre Racconti, 1964). In pochi autori il tema dell’irraggiungibilità e intangibilità della donna raggiunge esiti così parossistici, assoluti e profondi come in Landolfi. Proprio in La muta (il diario confessione dell’omicidio di una quindicenne) questo è espresso al meglio: «Se fin dal principio m’era stato chiaro che ella doveva essere mia, ora ben vedevo che non poteva essere mia» e ancora «Si può possedere l’oceano o il deserto? tale era la domanda, senza fondo al pari dell’oceano che continuavo a pormi».
La donna quindi Alpha e Omega della riflessione esistenziale di Landolfi, Eros e Thanatos, un Eros quasi sempre asfissiante e sepolcrale dalla cui oscurità e ambiguità sembra levarsi una fioca luce solo nel matrimonio quasi paterno con la Major di Rien Va e nella gioia della tardiva paternità dell’autore con la nascita della Minor (la figlia Idolina) come appunto narrato nel diario del 1963. Eppure anche in questo caso il sollievo e godimento della paternità non può che assumere parvenze sinistre nell’eterno gioco provocatorio e mistificatorio, come avviene anche nella prospettata metamorfosi salvifica di La Pietra lunare alla quale si contrappone il rifiuto di essere salvato, allo stesso modo del demonico come in La muta.
Sia che si sia “messo a nudo” con i suoi diari, La Bière du Pecheur, Rien Va, Des Mois, dirà al proposito: «La confessione come necessità vitale, igiene del corpo e dell’anima», sia che lo abbia fatto nella mimesi letteraria dei suoi tenebrosi e fantastici racconti, Landolfi è riuscito nella sua vasta e eterogenea opera a sondare il mistero della vita e delle parole che dovrebbero rappresentarla, aprendo delle finestre sul buio con il suo delirio cosciente ne ha provato la spiegazione, mettendo ovunque se stesso anche se secondo un’estetica del negativo al centro della scena:
«E invece io vorrei che questo fosse i libro (il registro) del mio abbandono, il quale (registro) non riguardasse altri che me» scriverà nel libro di lamentazioni e “chiacchiere da bara” che è Rien Va, un po’ Zibaldone, un po’ officina di tutta la sua opera, mostrando coerentemente al suo modus vivendi la ripulsa per “la vita antiassiuolesca:
«Somma è veramente la mia ripugnanza della, e alla realtà; non solo, intendo, delle piccole e meschine cose che in prevalenza la costituiscono, ma della realtà in quanto dimensione».
Una presa di distanza, un distacco e un’ironia che non gli impediscono nel suo costante gioco di maschere di confessare che «La letteratura non è vita» (Rien va) eppure affidandosi a lei come unico strumento di salvezza, avendone creata in quantità considerevole, avendone tradotta, avendone scritto in merito, da non dimenticare gli imperdibili mini saggi critici raccolti in Gogol a Roma nei quali con irriverenza blasfema spazia da Proust a Van Gogh, allo stesso amato Gogol, fino al Beckett de l’Innominabile sul quale il giudizio sarà tranchant: «Se può sembrare eccezionale ai profani, rischia di far sorridere familiarmente lo psichiatra».
I temi ricorrenti
Un percorso letterario quello di Landolfi lungo cinquant’anni durante i quali pur in forme diverse ritornano alcuni temi ricorrenti: la provincia, “l’avito maniero”, il palazzo dell’infanzia a Pico, la casa, il dolcissimo nido dell’abbandono con le nostalgie uterine che essa evoca e allo stesso tempo tenebroso luogo e ambientazione di quell’imago primigenio e luogo del ritorno che ha visto la stesura delle opere della sua prima stagione, il senso dell’altrove che trova espressione in Cancroregina, in Nozioni di Astronomia sideronubilare, altro racconto contenuto in Il Mar delle blatte, che può con tutte le precauzioni essere iscritto al genere fantascientifico frequentato da Landolfi dalla sua particolare linea tangente, l’autobiografismo, Il tema del doppio, la raffigurazione della femminilità e il tema ricorrente dell’omicidio sessuale, il senso di colpa, il senso della morte la circolarità vita-letteratura, il gioco, l’ipnosi lunare-materna, il demonismo, gli echi leopardiani sul senso dell’umana illusione, la tangente (altra immagine ricorrente), il suo equilibrio delicatissimo, una linea che non può toccare un cerchio in più di un punto, come se la linearità del tempo lì si interrompesse, una porte si chiude e allora lì nell’ attimo del racconto è la sua circolarità a costituire lo spazio narrativo necessario all’evocazione di fantasmi e creature senza nomi, un punto, un buco, una Mano rubata (Tre racconti), rubato alla linearità del tempo antiassiuolesco, insomma la sospensione di incredulità.
Tutte tematiche che riferite al Nostro, nell’andamento notturno e lunare del suo narrare, con l’iperrealismo deformante, con la chiarezza al servizio dell’oscurità, diventano un formidabile corpus letterario e fonte di stupore di fronte a qualcosa di inaspettato, come può essere solo la scoperta del soprannaturale che abita la realtà, una sorpresa che non sarà mai gradevole o consolante e che avrà l’effetto nel più blando dei casi di un’unghia che stride contro un vetro, una carezza contropelo o un’associazione d’idee che si vorrebbe scacciare subito dalla mente. Un fascino che è dato dal nascondimento, dalla mistificazione, dalla dissimulazione, dalla coesistenza e tolleranza di due cose che si escludono, la suggestione della penombra, questo è il fascino lunare di Landolfi, ben descritto ancora dalla Gurù di La Pietra lunare:
«Quando c’ è la luna fuori della finestra chiusa succedono cose strane, e meravigliose, cioè insomma ci sono cose che navigano, girano per conto loro mentre noi dormiamo. Non è strano questo? Non è strano anche che si possa dormire mentre la luna attraversa il cielo?»
Tutto questo è possibile grazie a un linguaggio e uno stile unico, classicheggiante e familiare allo stesso tempo, un periodare ricco di allusioni e analogie sottili che mettono in luce il perturbante nel quotidiano, e cosa c’è di più familiare della nostra lingua? Un senso che sarà quindi destinato a rimanere per sempre ambiguo. Un percorso letterario a tutt’oggi misconosciuto dal grande pubblico (e il buon Tom, così era chiamato durante gli anni fiorentini, forse non se ne dorrebbe troppo), che nel corso del tempo ha vissuto alterne fortune e vicissitudini editoriali, basti pensare agli anni successivi alla sua morte, quegli anni Ottanta nei quali i suoi libri erano pressoché introvabili. Una dimenticanza che ha patito nel corso degli anni, benché ritenuto dalla critica unanimemente uno dei maggiori autori del Novecento, senza poi preoccuparsi di dare ai suoi libri la dovuta diffusione, nella convinzione che fosse una battaglia perduta in partenza, fino agli Novanta quando finalmente Rizzoli ha proposto le sue opere complete nella collana dei “Classici” curate dalla Minor di Rien va, Idolina Landolfi, non solo la figlia di Tommaso ma saggista, scrittrice, promotrice di convegni di studi, curatrice e autrice di testi critici e quindi divulgatrice dell’opera del padre che successivamente, grazie anche all’opera della stessa, è arrivata fino ai giorni nostri con Adelphi che ha deciso di farlo approdare nel suo catalogo.
Al di là dell’estrinseco pessimismo che emerge dalle pagine landolfiane, sulle stesse possibilità della letteratura, sull’impossibile possesso della realtà attraverso la parola, nonostante il suo aristocratico sprezzo per “la vita antiassiuolesca” e la paura di lasciarsi andare, di abbandonarsi alla notte e al suo nerodiluna, nonostante la reiterata leopardiana denuncia dell’intrinseca infelicità umana della quale sarebbe vano e grottesco cercar le cause in un percorso autobiografico, l’opera di Tommaso Landolfi è una delle più alte testimonianze nella letteratura italiana del Novecento e non solo, e il costante sforzo di trovare la parola adatta che la sofferenza possa sanare, tramite la quale questa potrebbe svanire senza lasciare traccia, l’idea di una parola risolutrice, forzata a esprimere l’ineffabile, pur accorgendosi che anche questo tentativo è destinato al fallimento, la consapevolezza della bellezza di questo percorso è il più bel regalo che un autore possa farci.