Umanità, ironia, autoironia, tenerezza: la penna di Vanessa Ambrosecchio, in “Tutto un rimbalzare di neuroni”, è intinta nell’inchiostro della vita. Centrale nella storia raccontata la relazione fra insegnante e alunni: difficile trattenere l’emozione o il groppo in gola. Il romanzo però è ancorato a un modello di libro/testimonianza e lascia sullo sfondo lo strumento principale della relazione educativa, un sapere senza cui non si cresce e non ci si libera…
I neuroni che rimbalzano dal titolo del libro di Vanessa Ambrosecchio – Tutto un rimbalzare di neuroni (136 pagine, 15 euro) per Einaudi – sono quei famosi neuroni-specchio, che ininterrottamente agiscono in noi quando siamo in contatto con gli altri. Quei neuroni grazie ai quali ognuno di noi, senza bisogno che le parole o altri mediatori culturali si mettano in mezzo, sente ciò che l’altro prova, imita, istintivamente, i suoi gesti o gli atteggiamenti, gli attori principali dell’empatia.
Senza ricorrere a teorie inutilmente complesse, l’autrice usa questa immagine per spiegare cosa è insegnare: «tutto un rimbalzare di neuroni nella stanza degli specchi. Che come li guardi tu finiscono per guardarti, e fra loro, e se stessi. Che come gli parli tu finiscono per parlarti e parlarsi».
Se leggendo il libro, quasi ad ogni pagina, non potrete trattenere l’emozione, a volte il groppo in gola, per come vi risuoneranno dentro le storie degli alunni, di Teotista o di Marzia, di Zoran o di Giada, per la forza con cui l’umanità intensa che è condensata, ogni giorno, nello spazio di un’aula, vi investirà, date il merito a loro, ai neuroni specchio che anche in voi rimbalzano forti, e alla scrittura della pro (professoressa, è onestamente, troppo lungo per reggere all’evoluzione del tempo, così, passando per “prof”, è arrivato a distillarsi in pro), alla sua penna intinta nell’inchiostro della vita.
La fatica per schiudere cuori e menti…
Si capisce ancora meglio, allora, perché la cosiddetta DaD, la scuola dei tempi della pandemia, non ha niente a che fare con la scuola vera, perché a distanza quei neuroni non possono agire, lo schermo annulla lo specchio, l’immagine bidimensionale non riesce a coinvolgere i nostri sensi, la mediazione è troppa. C’è il racconto della DaD, nel libro di Ambrosecchio (nella foto di Rori Palazzo), certo, delle sue liturgie irripetibili (speriamo) e forse, per i posteri, incomprensibili, fatte di video camere spente, di connessioni traballanti, di inquadrature sghembe di interni inimmaginati. Ma c’è, soprattutto, la relazione tra insegnante e alunni, l’entusiasmante, terribile, quotidiana, sorprendente, fatica dell’insegnante che ora con vigore ora con delicatezza, a seconda del momento e dell’alunno, cerca la combinazione per schiudere il mondo custodito nei cuori e nelle menti dei ragazzi, liberare la donna e l’uomo che tengono dentro. Molti libri hanno già proposto questo tema, e se un limite ha Tutto un rimbalzare di neuroni è quello di restare molto ancorato dentro un modello di libro/testimonianza in cui le storie dei singoli, con la loro carica narrativa ed emotiva, assorbono per intero il senso di un’istituzione complessa come la scuola, e sembra sfumare sullo sfondo o affiorare appena quello che dovrebbe essere lo strumento principale della relazione educativa, un sapere senza cui non si cresce e non ci si libera.
I futuri possibili
Lo sguardo della pro alterna ironia, autoironia, tanta e benedetta, tenerezza, e riconcilia con la scuola e con i giovani. Nel finale, con una fuga in avanti, irrompe il sogno, e la professoressa svela tutta la carica di speranza che tiene dentro, che ha dissimulato per tutto in libro con l’ironia, un pizzico di malinconia, uno sguardo lucido sulla realtà. La svela confessando di sognare cosa, chi, saranno i suoi alunni tra vent’anni. La potenza di questo sogno dice il senso del suo lavoro quotidiano, dice che l’immagine che vuole restituire ai neuroni degli alunni non è tanto quella della realtà presente, non vuole fare dell’aula soltanto una stanza di specchi in cui si rincorrono le immagini dei ragazzi e dell’insegnante, magari modellandosi in meglio. Sono le immagini dei futuri possibili, che devono rimbalzare nelle menti dei ragazzi, è l’uomo sognato che deve imprimersi nei loro neuroni, perché è quello, che la pro ha negli occhi, è quello, che lei vede dietro le loro sciarpe sollevate a scudo, i loro silenzi impenetrabili, i loro messaggi fatti più di faccine che di vocali.
Ma ancora una volta, la pro stempera il suo slancio, sembra cosciente che anche questo è un rischio, volere scrivere noi il futuro dei ragazzi, sognarlo con i nostri mezzi, mentre forse dovremmo sapere affacciarci sul loro orizzonte con lo sguardo pronto allo stupore.
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