“Spatriati” di Mario Desiati è un racconto della giovinezza che non si lascia andare alla retorica, ma sa fotografare con naturalezza quel garbuglio che è la vita quando stai ancora prendendo le misure. Protagonisti Claudia e Francesco, due solitudini che si incontrano e si riconoscono…
La sensazione di doversi dimostrare all’altezza, quando le labbra si incrociano per la prima volta. Il tremito della voce che pronuncia ti amo. Il momento in cui percepisci il peso del tuo corpo all’aeroporto, poco prima di partire e iniziare una nuova vita. Il disorientamento, l’insonnia, le domande sul futuro – chissà dove andrò, chi sarò. Il primo colloquio di lavoro, le gambe che cedono. Poi il mutuo, la consapevolezza di essere diventati grandi; i tentativi di nascondere il disagio, le domande – ancora, e ancora – sul presente, su cosa si è lasciato alle spalle. La paura di non sapere come fare, di non sapere da dove cominciare. È un elenco lunghissimo, che potrebbe continuare per altre dieci pagine e comunque si avrebbe la sensazione di non aver afferrato il nocciolo, di non essere riusciti davvero a raccontare cosa significhi crescere: che emozione si prova a svegliarsi, un giorno, con le prime rughe, o a cercare per tutta la vita un posto nel mondo, un senso di appartenenza, senza trovarlo mai. È tutto qui il nucleo di Spatriati (288 pagine, 20 euro), il nuovo romanzo di Mario Desiati per Einaudi: in questo tentativo di circoscrivere un processo che ci accomuna tutti e che pure ci rimane misterioso ed estraneo, come una verità inafferrabile.
Segreti e silenzi
Spatriati è la storia di Claudia e Francesco, due ragazzi che si conoscono al liceo, quando ancora non sanno chi sono, e non si lasciano mai, neanche quando sono cambiati tanto da non riconoscersi (quasi) più. Claudia è selvatica, sopra le righe: legge scrittrici pugliesi dimenticate e frequenta uomini più grandi di lei, incurante delle convenzioni. Francesco, invece, è taciturno, alla costante ricerca di sicurezze e normalità che gli sfuggono sotto gli occhi. Il loro rapporto si nutre di segreti bisbigliati all’orecchio e silenzi rabbiosi, ma anche di partenze, ritorni, pomeriggi passati a leggere poesie. Claudia e Francesco sono due solitudini che si incontrano e si riconoscono. Sono, come dice il titolo, due spatriati:
«spatriètə | agg. Ramingo, senza meta, interrotto, detto del sonno che si interrompe: u sunnə spatriètə. Anche balordo, irrisolto, allontanato, sparpagliato, disperso, incerto».
Spatriato è il modo in cui, in dialetto pugliese, viene definito chi non ha radici, chi continua a cercare e cercarsi senza mai arrivare a un approdo, chi si tiene in equilibrio tra due posti sapendo che nessuno ha davvero il sapore di casa. Claudia e Francesco sono così: non hanno destinazioni, contorni o progetti. Indovinano il futuro a piccoli passi, l’uno accanto all’altra:
Amare, crescere, viaggiare
Come chiamarlo questo prodigio, questa relazione che c’eravamo inventati? Come chiamare il nostro istinto comune, quella forza solidale che ci faceva annusare i pensieri l’uno dell’altra?
In un certo senso, questo romanzo è una grande storia d’amore. Un inno a quei legami che durano attraverso il tempo, che si rinnovano prendendo forme inaspettate, che non hanno bisogno di essere detti. L’amore di cui racconta Mario Desiati è un amore puro, giovane, selvatico, impreparato, contraddittorio, fluido. È l’amore che si vive alle prime esperienze e quello che si impara a trent’anni, quando inizia la salita. Ma Spatriati è anche un romanzo sulla crescita, sul viaggio – concreto e interiore; è un racconto della giovinezza che non si lascia andare alla retorica, ma sa fotografare con naturalezza quel garbuglio che è la vita quando stai ancora prendendo le misure:
Le storie che danno un senso e una casa
… quanto tempo perso la giovinezza, quanto tempo perso a cercare una risposta a quella domanda, quando invece era meglio non rispondere affatto
Ho cercato a lungo qualcosa che riuscisse a restituire precisamente le sensazioni che ho provato sfogliando queste pagine. Mi è venuto in mente un pomeriggio a Roma, quando per la prima volta mi è sembrato di camminare in una terra di mezzo – troppo grande per essere bambina ma troppo piccola per essere adulta, non ancora ma non più; ricordo un libro stretto al petto, il rumore del mio respiro, la paura di sentirmi per sempre estranea, raminga. E poi ho pensato a una sera d’inverno, di ritorno dal mare, mentre scorreva una canzone di Lucio Dalla in sottofondo: la sensazione di avere vent’anni aveva la consistenza del vento che entrava dal finestrino.
Mentre scrivo mi rendo conto che Spatriati di Desiati mi ha portata inconsapevolmente indietro nel tempo, a quando mi sentivo un po’ persa; ha dato una forma alla mia giovinezza e alle domande che non sapevo ancora di avere. E mi chiedo, allora, se certe storie non vengano scritte proprio per darci un senso, una casa. Per liberarci dal pericolo di essere spatriati. O, più semplicemente, per liberarci dal timore di esserlo.
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