Un Dio «gelido», «distratto», estraneo alla causa della sua stessa creazione, fa capolino dalle pagine di “Io sono Gesù” di Giosuè Calaciura. Il Gesù di Calaciura è emblema di una umanità sottomessa che cerca di ribellarsi agli abusi ciclici della Storia, Maria è la divinità che sottrae la scena ad un Dio assente e dà al figlio l’investitura a redentore. Dopo una gioventù complessa e tormentata Gesù eserciterà la rivoluzionaria forza dell’amore gratuito, senza compiere miracoli ma affidandosi alla sola generosità del cuore
Io sono Gesù (288 pagine, 16 euro) di Giosuè Calaciura, edito da Sellerio, è il memoriale di un uomo, un povero cristo, che si riappropria dell’autorialità della sua storia, la sottrae ai veli mistificatori dell’affabulazione evangelica e la restituisce alla veridicità scarnificata e urtante della carne che si fa verbo tragico, lirico, razionalistico per annunciare la scomoda verità di una umanità votata al supplizio della croce per una imperscrutabile cinica volontà del caso o di un Dio «gelido», «distratto», estraneo alla causa della sua stessa creazione.
Il Gesù narratore
Ho trent’anni, nausea per i tradimenti che ho subito, disgusto per l’assenza di ogni giustizia tra gli uomini e nella natura. (pag. 12)
Sono burbero e selvatico, di poche parole e pochi sguardi. Abbrutito di lavoro, ho abbandonato tutto quello che mi sembra inutile e non necessario. (pag. 70)
Così il Gesù di Calaciura si presenta ai suoi lettori, come il narratore interno che ripercorre le vicende dei primi trent’anni della sua vita nel tentativo di strapparli alla indecifrabile oscurità della notte, quella entro cui sono stati confinati in parte dal silenzio della Vulgata, quella in cui è venuto al mondo in un’inospitale Betlemme come un reietto, e non certo come il figlio di Dio, e che solo la fede pura ed istintiva di Maria, madre e sposa bambina, può e sa consegnare alla luce immaginifica di un destino sacrificale e messianico, al quale tenterà invano e in tutti i modi di sfuggire.
Migrante, esule, povero vessato dal potere, dalla forza indomabile della natura, tradito dalla meschinità degli affetti, dal mercimonio di Dio che si perpetua nel Tempio, dalla collusione tra potere spirituale e temporale, abbandonato e solo, è emblema di una umanità sottomessa che cerca di ribellarsi agli abusi ciclici di una Storia imperialistica e teocratica che addomestica con la perseveranza di un falegname l’istintiva riottosità dell’uomo alla soggezione della pialla, prospettandone un riscatto solo sul piano escatologico.
All’età di trent’anni decide di raccontarsi, di dare una voce e restituire la sua verità a un protagonismo che altri hanno narrato, plasmato, strumentalizzato, sfruttando la sua capacità di affabulare e ragionare, affinata nei pomeriggi in cui si consumava nella fiamma del tramonto la disciplina esegetica delle Scritture sotto la perseverante guida di Maria. Capacità poi esercitata, con irriverente blasfemia, quando, per ingannare una infanzia di solitudine condotta tra l’Egitto e Nazareth, inframmezzava la sacralità arida e inaccessibile dei Testi sacri con rime inventate; in seguito camuffata d’artifici, quando ormai adolescente, nel circo di Barabba, era stato insignito del ruolo di presentatore abile nel confezionare e vendere al pubblico menzogne ed infine spogliata dei suoi orpelli illusionistici ed irriverenti e riscoperta, in qualità di io narrante, ora nuda e caustica nella sua indagine sul senso ultimo di una esistenza cieca, ora fluida e nostalgica, come una nenia che giunge dal languore nomade di antichi deserti, tra rassegnato ripiegamento e ipotesi di miraggio.
Maria, la fede che si fa destino
Ma lei vedeva solo la generosità di Dio e il suo senso estetico. (pag. 140)
Mi puliva strofinandomi con forza il mento e le labbra dai residui di frutta, per cancellare qualcosa del passato o a riformulare la mia faccia futura. (pag. 19)
La Maria di Calaciura, invece, è troppo semplice per formulare ipotesi, porsi degli interrogativi sulla natura delle cose umane e divine, sulle cause dell’ingiustizia che la circonda e che l’ha relegata nel ruolo di madre, a soli quattordici anni, costretta a sposare un uomo ormai anziano, il falegname Giuseppe, solo per porre rimedio ad uno stupro subito da parte di un uomo, un certo Gabriele, che ne aveva violato la sua intimità di donna-bambina. Maria trae solo risposte certe dalle letture allegoriche del testo sacro, cui affida sé stessa e il destino di redentore che ha ritagliato per il figlio Gesù.
Creatura pura, refrattaria al male, docile, incline per un istinto silente al perdono, ha preservato il frutto del suo grembo dalla maldicenza e dai ferri dell’aborto, con il suo amore demiurgico, salvifico ed eternante:
Mia madre invece come tutte le donne con prole era certa che suo figlio avrebbe cambiato il mondo. Ne avrebbe sconvolto la prospettiva, arrestato l’inerzia sterile del tempo che le sembrava fermo e immutabile. Nell’interesse di ciascuno ma soprattutto a beneficio di lei, la donna, la madre: suo figlio le avrebbe disegnato un nuovo destino. (p. 101)
Maria ha offerto a Gesù un riparo, nel molle e fertile grembo della sua vivida immaginazione dalla paura del buio, gravosa eredità di quella sua notte leggendaria in cui si affacciò al mondo come una bestia che vive «l’alito di un momento e subito arriva il tempo della scanna» (p. 25); intesse, parca di inesauribile materia narrativa, di stelle comete e presagi l’ordito altrimenti «senza memoria e senza conferme» (pag. 11) dell’epifania del Cristo, raccontando «di regni che non sono di questa terra» (pag. 10), ricostruendo parentele con sovrani celesti; «aveva partorito un agnello da sacrificio fantasticando il Messia» (p. 208). È Maria la stella cometa che guiderà Gesù nell’inestricabile e doloroso groviglio degli eventi fino all’uscita di scena dalla storia individuale dell’uomo soggiogato da indomabili forze esterne e dalle inquietudini della carne e della ragione, per consegnarlo alla facondia eterodiegetica della Storia dei cristiani che nel giro di tre anni lo avrebbe inchiodato all’intransigenza della croce; è Maria la divinità che sottrae la scena ad un Dio assente e consegna il figlio alla trascendenza eroica della vittoria quando, finalmente risoltosi a seguire il cugino Giovanni che lo attende sulle acque del fiume Giordano, lo saluta nella certezza che il frutto del suo ventre farà la sua volontà di Madre.
Giuseppe, falegname e pater incertus
Era stato un ragazzo silenzioso e timido e adesso che avrebbe desiderato una famiglia, diventare padre, gli anni di troppo lo avevano allontanato da quella speranza. (pag.151)
Giuseppe il falegname di Nazareth è uomo taciturno, avanti con l’età, di indole operosa e scrupolosa; ha a cuore l’incolumità del figlio che sorveglia con attenzione ossessiva «a tracciare con la sua ansia una ragnatela di sicurezza intorno alla casa affinché la minaccia fosse solo natura» (pag. 13). I soldati di Erode seminano strage di innocenti perché il potere è minacciato da un’attesa palingenetica; Giuseppe sa che il suo compito è limitato al tempo dell’infanzia di Gesù, dodici anni in cui tenta di proteggere la sua famiglia dalla barbarie degli appetiti umani; se riesce a preservarlo dalla violenza del re della Giudea, non ha gli strumenti per sottrarlo al destino che Maria legge nel volto di quel figlio: «Intanto ci scrutava in quella nostra intimità di parole sottratte alle pagine della Torah. Anche di quelle aveva paura» (pag. 17). Agli occhi del Gesù bambino, Giuseppe è il genitore, dotato al pari del Padre, del potere creazionista, con il suo legno è capace di dar vita ai giocattoli che gli avrebbero fatto compagnia in una infanzia di esilio e solitudine; in realtà non ha neppure pieno potere sul legno e sulle sue tare, così come avverte tutta la sua impotenza pedagogica nel levigare quel suo figlio acquisito, che non può assomigliargli, «incoercibile e selvaggio» fino a renderlo come lui, un ragazzo «onesto e laborioso docile e umile» (pag.119). Tentativo in cui fallisce anche perché non vuole volontariamente risolversi ad adattare le velleità libertarie, ribelli ed utopiche di quel bambino alla macelleria della croce. È per questo che Giuseppe abbandona Gesù e per non trasmettergli il mestiere di falegname, «Era rimasto poco dei suoi attrezzi forse per dissuadermi ad intraprendere quel suo mestiere di fatica» (pag. 123) in quella ciclicità che inchioda i figli a ripercorrere le orme dei padri; quasi a presagire che in futuro gli sarebbe occorso, quel mestiere, sotto minaccia delle insegne romane, per costruire tre croci, su una delle quali avrebbe abbracciato la sua stessa morte.
Gesù personaggio e la quéte identitaria fallimentare
«Volevo la luce del giorno e non accettavo la condanna del ciclo quotidiano di sole e di buio. Mi sembrava una cattiveria creata a posta per angustiarmi».
«Oggi a trent’anni sono ancora lacerato. Pesante di memorie, vuoto di ogni progetto. La stanchezza, il torpore dell’esperienza, la silenziosa delusione che leggo negli occhi di mia madre. Per lei sono una promessa mancata. il mio cuore a metà è pieno di desiderio del sonno. Mi rifugio nell’altra metà, quella che ho già vissuto» (pag. 38)
Sin dagli esordi la narrazione assume le forme del Bildungsorman e si snoda entra l’alveo di una picaresca azione d’inchiesta condotta dal protagonista Gesù per riappropriarsi di una identità negatagli da forze esterne, dal venir meno in maniera precoce, inspiegabile e definitiva all’età di dodici anni, di un confronto edipico con una paternità che si rivelerà ‘surrogata’, dall’investitura a redentore conferitagli dalla madre, da un potere politico e religioso persecutorio, liberticida, venale, da una natura meccanicistica matrigna e soverchiante, da una dis-umanità ipocrita e darwinianamente arrembante. Egli sin da subito mostrerà un carattere recalcitrante e disobbediente nei confronti della catena degli eventi che lo avviluppano, imprigionano e inchiodano alla grottesca mimica del saltimbanco e tenterà in tutti i modi di scorgere una maglia nella rete delle necessità attraverso la quale fuggire ed immettersi nel campo dell’autodeterminazione e della libertà. Tentativi vani, le sconfitte che si susseguiranno lo costringeranno ad un ripiego antieroico in cui scorgerà, nella irredimibile sensibilità, nel suo lacerante senso di colpa per l’inadeguatezza alla vita che lo ha reso inesorabilmente vittima, le cause di quel deserto paesaggistico ed esistenziale che lo circonda e pervade. Si riconosce tragos, nel fallimento della quéte, desidera il sonno, la morte, tanto da tentare il suicidio; accetta infine la croce e si rende, imbelle e sconfitto, sulla dissolvenza di un finale aperto, alla volontà di una Storia aguzzina o di una Provvidenza tiranna.
L’infanzia di Gesù
«Il popolo dei miserabili si svegliò. Ciascuno dal suo giaciglio mi faceva un cenno, avanzava una necessità, una richiesta mi invitava a raggiungerlo. Molti non avevano preghiere, che almeno ascoltassi il loro lamento, alcuni volevano solo guardarmi negli occhi: il ragazzo che non fuggiva. A tutti offrivo occhi e orecchie, per tutti mi adoperai mentre il tempo a disposizione era ormai finito. Ricordo la lucida consapevolezza di quel mattino, la certezza di avere scollinato la fanciullezza. Guardavo il mondo dall’altro lato, e ne contavo le rughe una per una, vedevo le imperfezioni come le ingiustizie degli uomini: quanto lavoro c’era da fare! Quello che stavo vivendo era il tempo più felice, quando la nebbia sulla valle sembra diradarsi e tutto appare netto, e chiaro illuminata la strada. Come vorrei adesso quello sguardo profondo e senza paura. Come vorrei avere dodici anni». (pag. 32-33)
L’infanzia di Gesù si muove tra peregrinazioni e persecuzioni, ingiustizie subite, intimità protettiva familiare; su di lui grava una colpa storica, una promessa di madre, una premurosa attenzione di padre, la solitudine del figlio unico, la macchia di un abuso, il silenzio degli adulti ed una incomprensibile oscurità, veli che lo costringono nella cecità di un mistero. Coraggioso, curioso, ostinato, pervaso dall’urgenza di conoscersi, di comprendere il mondo circostante, cerca nell’esegesi del reale la rivelazione del segno. Pertanto nella Pasqua dei suoi dodici anni mentre si appresta a raggiungere con la famiglia i parenti che vivono a Gerusalemme egli esprime la volontà di rivedere in una Betlemme impervia, estrema, ruvida e deserta «la capanna la grotta la stamberga dove sono nato e dove continuo a nascere a ogni racconto, con una parete di canne a chiudere l’ovile e una portaccia di assi di legno sbilenchi a scoraggiare i curiosi, un riparo offerto dalla natura a ridosso della collina e attrezzato dagli uomini per esigenze tutte loro: da rifugio per il bestiame a scannatoio per gli agnelli, da magazzino di attrezzi e finimenti a ostello per partorienti, culla di nascituri. La stessa dimensione, lo stesso destino del mondo» (pag. 23); lo stesso destino dei dannati del mondo: stranieri, migranti, perseguitati, i sommersi cui si chiudono le porte della ospitalità nella divina indifferenza e generale ipocrisia. Il mondo appartiene solo ai ricchi, questa la prima lezione universale che apprende il piccolo Gesù, ai salvati che detengono il potere: «Più tardi avrei compreso che il denaro ratifica ogni differenza e tutte le ingiustizie. È il denaro che condanna i servi e i padroni» (pag. 21).
Una volta a Gerusalemme, egli avrà la stessa indignata reazione nei confronti di crudi, sadici e inaccettabili rituali religiosi condotti da «macellai di Dio» contro un «minuscolo pene raggrinzito dal terrore»; come inorridirà dinnanzi all’inaccettabile compravendita dei ‘servizi’ offerti dal Tempio per un Dio il cui «conto era sempre aperto e non prevedeva il saldo» (pag. 29). A Gerusalemme, se affina la sua eretica propensione ad una critica feroce ed intransigente che non risparmia nessuno e soprattutto non perdona, egli scopre il mondo marginale degli ultimi, i vinti, gli storpi, gli scarti della storia; nella cura delle loro ferite nutre la sua sete di giustizia, esercita la rivoluzionaria forza dell’amore gratuito, si riconosce nella sua intima vocazione a diventare l’uomo-Gesù, che non può e non sa compiere miracoli ma si affida alla sola generosità del cuore.
L’adolescenza, la ricerca del padre e l’affermazione del sé
Lucidamente ragionavo su quanto volessi riabbracciare mio padre. Perché lo cercavo? Il suo abbandono mi aveva acceso un dubbio, suggerito più volte da mezze parole tra i aprenti che non si accorgevano della mia silenziosa presenza[…]. Tante volte avevo scacciato quel dubbio: Giuseppe era davvero mio padre? (pag. 41)
“Ηλει Ηλει λεμα σαβαχθανει”. L’allontanamento di Giuseppe rimette in moto la macchina narrativa che si ravviva di una energia adolescenziale dinamica e traboccante e si disperde entro i rivoli di una indomabile e vitale sperimentazione del ragazzo che si va profilando uomo:
I ragazzi sono come gli insetti impollinatori: non hanno tempo per fermarsi sul fiore più accogliente. Devono seguire il loro misterioso progetto. L’ansia di non perdere nemmeno un alito dell’illusione di primavera li ha già portati altrove. (pag. 59)
Gesù, all’età di quattordici anni, abbandona infatti Maria per mettersi sulle tracce del padre; deve potere ancora una volta confrontarsi con lui, accogliere le ultime carezze di bambino «Vorrei ancora le tue mani perse sulla mia testa, ancora una carezza padre, una benedizione ancora il tuo palmo che scivola sino alla fronte per accertarsi che non avessi febbre» (pagg. 19-20 ) ed infine salutarlo, per prenderne definitivamente le distanze «in quel bizzarro apprendistato alla maturità» (pag. 139) come un Edipo iconoclasta appena liberato dal complesso agonistico col padre e pronto ad affacciarsi alla vita extrafamiliare con la sua peculiare identità; saranno le esperienze maturate in absentia della figura paterna a condurlo verso «un parziale, forse triste successo. Stavo diventando un adulto diverso da mio padre. Lo trovavo disconoscendolo» (pag. 100).
Il viaggio prende le forme di una avventurosa diaspora, al seguito di un’accolita di circensi «rotta ad ogni improvvisazione, affamata, bugiarda, senza religione e senza timore di Dio» (pag. 64) che lo accoglie e protegge, dalla fame, dalle aggressioni esterne, dall’ostilità dei luoghi, dalla diffidenza dei soldati romani verso chi tentava di infastidire «la pacifica prepotenza del potere», dal pregiudizio delle genti per i quali quella vita raminga e libera non doveva che essere sinonimo di truffa, dai capricci dei ricchi che li ingaggiavano «con la prepotenza di chi ha una lancia in mano e la licenza di reprimere» (pag. 91). Una catabasi la sua nelle viscere ferine della sopravvivenza, una iniziazione all’arte della simulazione e dissimulazione, il suo ingresso ufficiale nel mondo impuro degli adulti. Gesù verrà infatti accolto all’interno di questa rocambolesca famiglia entro cui riconoscerà nel capo, l’indiscusso Barabba, l’anti-Giuseppe, il nuovo modello verso cui tendere: un ruffiano, un imbroglione, un ladro. In questo rapporto di diseducativa assimilazione, Gesù imparerà l’arte circense della mistificazione e dell’inganno fino a snaturare completamente la sua natura, la sua anima: «Mentre mi osservavo nello specchio immaginai lo sguardo di mio padre di fronte a quel figlio ormai così diverso, così falso e sciocco. L’unico che non rideva era Barabba. […] La crema del mago non aveva camuffato solo il mio viso. Era scesa in profondità, sino all’anima» (pag. 84).
In questo mondo di imbroglioni sperimenterà anche l’illusione dell’amore per Delia, ragazza affascinante che si presenta ai suoi occhi e a quelli del pubblico di fronte al quale si esibisce quando va in scena, avvolta da veli che simbolicamente esprimono il suo “parlar coverto”. Gesù apprenderà da Delia il sussulto del cuore che s’appresta a celebrare la stagione del primo innamoramento ma subito dopo ne assaporerà il disincanto disarmante, inconcepibile, doloroso del tradimento. Abbandonato e tradito negli affetti da Giuseppe prima, da Delia e dallo stesso Barabba poi, egli ascriverà la condizione di solitudine ad una meritata ineluttabile espiazione.
Il ritorno a Nazareth del Gesù che si fa adulto
Non credevo in Dio. Non credevo più negli uomini. Non so cosa fosse successo nel mio cuore. […] Quando mi interrogavo su Dio mi rispondeva solo un profondo e silenzioso buio.
Gesù ha diciassette anni quando fa rientro a casa, la sua adolescenza uccisa dai tradimenti si fa rancorosa, autolesionistica, miscredente nei confronti degli uomini e di Dio; ripiega su stesso e pensa che a Nazareth possa trovare il luogo adatto per sfuggire alle angherie degli uomini, ai capricci della vita. Sarà travolto invece da un’inarrestabile catena degli eventi, una implacabile trama narrativa, entro cui si sentirà in trappola, che non toccherà mai la sua akmé, non approderà ad un rassicurante scioglimento ma anzi condurrà verso l’indeterminatezza del finale che non chiude, lasciando in un chiaroscuro di interrogativi ed inquietudini il Gesù protagonista, il Gesù-uomo nella erranza sacrificale delle epoche future.
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