Area 22. Gershom Scholem poeta tra politica, studi e amicizia

Nuova puntata di Area 22. Filosofo e teologo di primissimo piano, Gershom Scholem, ma anche poeta, autore di liriche, alcune delle quali vere e proprie perle. Ne “Il sogno e la violenza” il suo percorso di impegno (e disimpegno) sionista, la propria condizione spirituale, il rapporto con Israele…

La cosa più difficile nel recensire un libro come questo – Il sogno e la violenza (147 pagine, 14 euro) di Gershom Scholem, pubblicato da Giuntina – è non dimenticare che si tratta di poesie, per quanto sia impossibile scinderle dal percorso filosofico dell’autore. Ma la curiosità che mi ha spinto a leggere questa raccolta è stata ampiamente soddisfatta: colui che ha fatto conoscere la mistica ebraica all’Occidente, ci ha lasciato anche delle liriche, alcune delle quali vere e proprie perle. In questo volume ne sono raccolte 21 rispetto al totale (circa una quarantina tra dattiloscritte e manoscritte, secondo il catalogo dell’archivio dell’Università ebraica di Gerusalemme), e sono tradotte, introdotte e commentante dalla professoressa Irene Kajon, curatrice del testo, docente di filosofia e storia dell’ebraismo presso “La Sapienza” di Roma. Le sue note a ciascuna poesia, nella seconda parte del testo, risultano fondamentali per contestualizzare e comprendere i brani, collegandoli alla sua vicenda intellettuale con un’abbondanza di riferimenti bio-bibliografici.

Quel sionismo pacifista e utopico

Il titolo della raccolta va compreso interamente all’interno del pensiero religioso ebraico, e fa riferimento ad una particolare forma di sionismo a cui Scholem aderì in gioventù. Nei primi decenni del Novecento, come tutte le altre ideologie politiche, anche il movimento sionista stava organizzandosi per farsi strada nella storia; solo che Scholem era convinto per fede che in virtù della propria matrice messianica il sionismo si sarebbe emancipato dall’uso della forza violenta. Nello spirito delle grandi profezie bibliche quali Isaia cap. 2, l’autore fu portavoce di un sionismo pacifista tanto ingenuo quanto minoritario, utopico. Ecco, l’utopia è il sogno a cui si allude, e diversi brani cantano e riflettono sulla disillusione al sopraggiungere (inevitabile) della violenza: «Lo splendore di Sion sembra trascorso,/ il reale ha riportato la sua vittoria” (p.61). La Gloria di Dio non può ritirarsi da Gerusalemme, ma il monte Sion sembra diventare un buco nero nella storia, che irradia una “luce autoinabissantesi» (ibidem). Teniamo sempre a mente che la prospettiva è quella biblico-teologica, almeno sino a qui; l’autore in quegli anni mai poteva immaginare, malgrado le avvisaglie crescenti, il buco nero della storia in cui il suo popolo stava per entrare e che avrebbe occultato per anni la presenza viva del Dio dei padri. La notte narrata da Elie Wiesel ha da venire, e gli eventi che scuotono Gershom Scholem sono quelli che iniziano nell’estate del ’29 a Gerusalemme, con i primi sanguinosi scontri tra arabi palestinesi ed ebrei sotto il Muro del Pianto. Il brano successivo è quello cruciale, è datato 23 giugno 1930 e s’intitola Incontro tra Sion e il mondo (sottotitolo: Il tramonto). Leggiamo le ultime tre strofe:

 

Nel punto focale della storia 

siamo inceneriti;

distrutta la gloria segreta

che visibile si è resa al mercato.

 

Questa fu l’ora più oscura:

destarsi dal sogno.

E tuttavia: chi le ferite mortali

ricevette, appena le notò.

 

Ciò che era interno, è all’esterno

cambiato, il sogno in violenza,

e noi siamo di nuovo fuori

e Sion non nessuna forma.

 

Dalla militanza alla Qabbalà

In questi dodici versi sono concentrate non soltanto la dicotomia sogno/violenza ma anche luce/oscurità, interno/esterno, oltre che tante altre parole-chiavi: storia, gloria, forma (norma), Sion. Qui c’è traccia della svolta noetica del filosofo e della fede personale del credente ebreo. Come ben racconta la professoressa Irene Kajon, è proprio in quegli anni che Scholem da una parte avvia il disimpegno da un sionismo militante, dall’altra si avvicina allo studio profondo e partecipato alla Qabbalà, di cui diverrà storico e divulgatore. La sua fede diverrà crepuscolare, anzi notturna: 

Ho perso la fede

che qui mi ha portato.

E da quando spergiurai,

vi è notte intorno a me.

 

L’oscurità della sconfitta

segretamente mi attira;

(…)

Non lotto per nessuna causa,

lotto solo per me 

(…)

Se possa farlo non so,

la sentinella sull’orlo del nulla 

(…)

   

Sfumature ermetiste

Media in vita, s’intitola quest’altro brano dello stesso periodo, che ben racconta la mutata condizione spirituale dell’autore. Ma ormai Scholem ha capito che bisogna andare oltre alla parvenza essoterica delle semplici parole; e ce lo insegna anche attraverso le sue poche poesie che assumeranno da qui sfumature ermetiste. Un approccio antinomico alla realtà, ove la verità può celarsi dietro alla sua negazione, d’ora in poi sarà la sua mappa concettuale, ed il cabbalismo in ciò determinante. Ma la fede non scompare nell’abisso del Nulla: anzi. Egli dirà di esser approdato ad una sorta di nichilismo religioso (cfr. intro, p.23), sviluppando una teologia apofatica estrema, paradossale ed esoterica. Pur tuttavia, com’è noto, la lucidità e il rigore della sua ricerca storica mai verranno meno. Ma ormai tutto ciò che è storia, lettera, e norma saranno nel suo profondo come “il giorno che ci rende impuri,/ a ciò che cresce, la notte è necessaria” (altro verso de Il tramonto).

Lo stato di Israele come il canto delle sirene

Perfino il suo messianismo perverrà a posizioni metastoriche (non astorico: il messianismo non può esserlo per definizione). Non si tratta di una banale apocalittica, ma di un’ermeneutica della storia come di qualcosa saper leggere e scrostare alla ricerca di significati remoti. Questo non è valso soltanto per il suo avvicinamento all’eresia del Sabbatianesimo (non intendete il termine eresia come si usa nel cristianesimo), ovvero l’esperienza e l’insegnamento dell’autoproclamato messia Shabbetay Tzevi e del suo profeta Nathan di Gaza a cui egli dedicò molti studi e soprattutto il saggio su Il Messia mistico (traduzione italiana edita da Einaudi). La prudenza della ricerca esoterica, che attende paziente il ritrovamento dei significati occulti, lo ha portato a non farsi tirare dalla giacchetta da Ben Gurion all’atto di nascita dello stato di Israele: «egli si rifiutò in quegli anni di assumere per la comunità ebraica in Palestina il ruolo pubblico quasi profetico di annunciatore di messaggi salvifici sul terreno storico e politico…Egli manterrà questo atteggiamento di riservatezza riguardo alle sue idee nell’ambito storico e politico anche negli anni successivi…Soltanto più tardi, dopo la guerra arabo-israeliana del 1967, egli criticherà in modo esplicito la confusione di teologia e politica propria di alcune correnti del sionismo…» (Irene Kajon, nota alla poesia n°18 Die Sirenen, p.132). La creazione del moderno stato di Israele sarà per lui l’ultimo incanto della storia a cui resistere, come il canto delle sirene, appunto, nella poesia sopra citata del settembre del ’47. Nell’estate dell’anno successivo, di fronte al dipanarsi del conflitto a Gerusalemme, si completa la defezione del suo cuore dal monte Sion, e lapidario scriverà: «tu senti che la vita secolare /di questa città fortemente vien meno/ e tu sai: essa si è consumata/nel reale, e inizia/ a distaccarsi dal presente /(….)/ ed di nuovo ciò che a lungo è stata:/ solo un ricordo di grandezza antica/ e un’attesa dell’ultimo giorno» (Gerusalemme, p.83).

Due amici

Andando a chiudere, dobbiamo dire che “solo” di questo si tratta? Una raccolta in forma poetica di un percorso teologico-spirituale? Ovviamente no. In questo breve spazio segnaliamo soltanto l’altro grande pilastro narrativo, l’amicizia. Molte delle poesie sono brani d’occasione nate e/o consegnate ad amici e colleghi. Su tutti, uno in particolare: Walter Benjamin, altro poderoso ed originalissimo pensatore del primo Novecento. Una grande amicizia con Gershom Scholem lo legò a lui sino alla morte; lo stesso Scholem gli dedicò un saggio in cui ripercorre il suo pensiero e la Storia di un’amicizia (è il sottotitolo; in Italia edito da Adelphi). Un grande affetto li unisce, e rispetto profondo tanto quanto la distanza spirituale tra loro, che spesso discussero più che animatamente. Soprattutto, è attorno al concetto di storia che si saranno accapigliati: quella inevitabilità della violenza che Scholem aborrisce, divenne per Benjamin un segno della necessità che bisognava decidersi. Ed egli lo fece, nella sua militanza marxista. Ma per Scholem questa scelta dell’amico di una strada a senso unico non piacque mai, non lo convinse sin dall’inizio sul piano teorico ancor che pratico (cfr. la lirica di p.71). L’icona della diversa visione della storia tra i due fu il quadro di Paul Klee Angelus Novus. Benjamin ne fu talmente colpito che anche nelle sue peregrinazione portò la copia acquistata con sé. Ma già nel 1921 Scholem ispirato dal quadro aveva scritto una poesia (p.59) che regalò a Benjamin. L’angelo della storia rappresenta il progresso, ma ha uno sguardo atterrito; solo una bufera lo sospinge più in là, suo malgrado. L’angelo, secondo Scholem (in quel periodo), non significa nulla, è una violenza nonsense. Benjamin di certo ebbe un’altra interpretazione della storia (e del messianismo). Ma altre due cose sono certe: la prima è che Benjamin usò la poesia dell’amico come esergo per i suoi saggi sul concetto di storia; la seconda è che alla sua morte Benjamin lasciò il quadro di Klee a Scholem. 

La redenzione svanita

L’ultima poesia è del 1967, A Ingeborg Bachmann dopo la sua visita nel ghetto. Molte amare considerazione contengono questi versi. Le strofe centrali recitano: “Certo tutti i giorni hanno una sera./ Ma tutto in futuro doveva essere nuovo:/ l’ultima sera, che ci dà consolazione,/ i raggi delle redenzione in sé concentra./ Così diceva lo spirito dell’utopia,/ in cui oscuramente consolazione e pena sono uno./ In luogo di essa, solo melanconia ci rimase/ e ciò che resto della consolazione, fu il pianto” (p.89). Il ritorno di utopia mi conferma come questa sia la chiave di volta del pensiero e dell’animo di Gershom Scholem. Questa non è solo la traccia delle sue letture di Bloch. In Utopia convivono in uno sogno e violenza, consolazione e pena. Antinomicamente, senza movimenti dialettici. Per gli ebrei, secondo Scholem ogni redenzione nella storia è svanita per sempre. Noi questo però non lo sappiamo. Ci permettiamo soltanto di aggiungere che quelli nel ghetto – in tutti i tipi di ghetti – forse una redenzione l’hanno conquistata sul campo. Sarò un po’ troppo cattolico, ma un posto nella Gerusalemme Celeste – almeno quella – non glielo toglie nessuno.

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