“La Clavicola di San Francesco” è un giallo scritto da Daniele Nadir, un’ennesima rilettura del poverello di Assisi, con un notevolissimo intreccio narrativo ma personaggi troppo statici. “Il nome della rosa” è un modello evidente, però l’omaggio lascia perplessi…
Certi romanzi producono in te strutturanti mutamenti, ti lasciano il segno, ti conducono verso un limite d’orizzonte che non immaginavi, permettendoti un’ulteriore visione del mondo che prima non avevi. Non è il caso – ma è un parere personale – di questo libro: La Clavicola di San Francesco (468 pagine, 19 euro) di Daniele Nadir, pubblicato da 21Lettere.
Naturalmente esagero. Ovvio che c’è sempre del buono in un libro, né ho mai privilegiato approcci troppo severi con un testo, il quale costa sempre fatiche, ricerche, e certamente tanta, tanta passione. Ma ho voluto allinearmi fin da subito a quel sarcasmo che fa da sfondo a tutta la storia e che invita – o abitua – il lettore a non distaccarsi troppo dalle medesime tinte; sarcasmo che però, quando si distanzia troppo da Sorella Ironia, rischia talvolta di inquinare l’evidente e ottima vocazione allo spirito che dall’autore si riversa nei suoi personaggi, specie Fabio, voce narrante e sentenziante, nonché protagonista morale del racconto.
Un giallo in cui il superfluo… serve
Si tratta, fondamentalmente, di un romanzo di genere giallo, ma di quelli che non appaiono immediatamente così. Devi aspettare un buon numero di pagine prima di accorgerti seriamente che, ad un certo punto, c’è da scoprire qualcosa e da risolvere un caso. Ed è lì che, proprio quando pensavi che tutta la storia non fosse altro che un’allegra scampagnata no-global, capisci finalmente che c’è una trama (ecosostenibile) e che, ad onor del vero, la si è voluta trattare bene fin dalle prime pagine, preparando con attenzione quegli elementi di ritorno che poi, di fatto, ti aiuteranno a comprendere meglio (dopo) tutto ciò che appariva superfluo (prima). In questo si apprezza senz’altro l’autore e gli si dà merito per aver ordito un notevolissimo intreccio narrativo tra i prodromi della vicenda e i suoi esiti, usando lo stratagemma della riduzione del carattere, così da contrassegnare chiaramente i due assi narrativi alternati (ma secondo me era anche per risparmiare sul numero di pagine, dato che l’asse narrativo preponderante, quello dell’indagine vera e propria, è la sezione che prende più spazio; non riesco a non immaginare una riunione tra l’autore, l’editor e l’editore che si mettono d’accordo su questo espediente, sorridendo mentre si convincono che a nessuno verrà in mente che potrebbe trattarsi solo di una necessità eco-tipografica che magari avrebbe anche fatto piacere anche a San Francesco… Se in questo ragionamento vi sembra che si inceda ad un facile complottismo, sappiate che i personaggi del libro non sono da meno!).
Certe infanzie da… pistoleri
La storia si articola, dunque, su una prima lunga, interminabile, caratterizzazione dei personaggi di fondo, e sulle loro infantili esperienze che poi ne determineranno atteggiamenti e tratteggi futuri. Sennonché, questa loro infanzia è tutta affidata alla memoria critica del personaggio narrante, così che – fatta eccezione per qualche pagina più che meritevole in cui passato e ricordo appaiono almeno proporzionati – persino i giochi e le avventure dei bambini subiscono un tale filtro ideologico da togliere alla loro naturalezza qualunque parvenza di verosimiglianza. Per capirci, qui non si tratta più di un uomo che rilegga da adulto consapevole la sua esperienza di bambino; la rilettura è talmente forzata e sottoposta a pressione critica da far sì che l’adulto narrante “diventi” il bambino di cui sta parlando, in una grottesca e lillipuziana riduzione. La grandezza propria dei bambini è dunque costretta a passare per la traumatica rilettura di un adulto che di grande avrebbe solo il ricordo di quand’era piccolo, se lo rispettasse per ciò che è.
Simpatica però, c’è da dirlo, la presentazione di questo gruppetto di ragazzini che (nella divertente formazione 6+1) si immagina come una piccola banda di pistoleri sempre a caccia di nuove avventure: il Duca (leader fin da piccolo), Marco, Caterina, Giulia, Sebastiano e Fabio. Più Dio, che non c’è perché non si vede. E non si vedrà. I sei crescono in una realtà convittuale, in un collegio che, se da un lato vedrà rafforzare la loro amicizia, dall’altro vedrà emergere fin da subito la problematicità del personaggio attorno cui ruota tutta la faccenda: Seb (più avanti frate Elia).
Un’artificiale isola labirinto
Essere sovrasensibile, emblema parossistico d’ogni possibile ecumenismo biologico e religioso totalmente dissociato e asistemico, questo Seb appare perfettamente corrispondente alla descrizione che, al termine de Il Nome della Rosa, ci è fornita da Adso, e che riecheggia gli ultimi insegnamenti di “frate” (guarda caso) Guglielmo: L’anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo, o l’indemoniato dal veggente. E continua Adso (fornendoci a posteriori una buona chiave di lettura per il nostro testo): e la verità si manifesta, a tratti, anche negli errori del mondo, così che – occhio! – dobbiamo decifrarne i segni, anche là dove ci appaiono oscuri e intessuti di una volontà del tutto intesa al male.
Chi leggerà il libro si renderà conto di quanto le parole sopracitate rispondano perfettamente non solo alla descrizione del protagonista formale (che non è Fabio, ma Seb) ma di tutto lo sfondo nel quale si intrecciano le vicende. Al punto che questa Clavicola (che poi si scoprirà essere un misteriosissimo libro anziché un osso) sta al leggendario Libro sulla Commedia, di Aristotele, oggetto del capolavoro di Umberto Eco, come il suo Jorge sta al nostro Seb, e come la pazzesca biblioteca dell’abbazia stia alla misteriosa isola descritta da Nadir: un vero e proprio labirinto, un ecosistema artificiale riprodotto ad arte perché, in luogo di antichi codici, vi si conservino tutti gli animali esistenti, come in una nuova Arca di Noè. Anche Fabio e Giulia, in effetti, somigliano tanto ad Adso e alla giovane di cui quest’ultimo non seppe mai il nome, con la differenza che qui è la controparte femminile ad essere in bilico tra la vita monastica e quella secolare.
Via di mezzo fra Eco e Brown, ma…
Lo schema di riferimento a Il Nome della Rosa, perciò, appare abbastanza evidente a chi ne abbia visto anche solo il film. E di questo ci si può senz’altro rallegrare! Sarebbe stato perfetto se questa sovrapposizione di trame fosse apparsa così, semplicemente: nessuno avrebbe pensato a qualcosa che fosse diverso da un geniale omaggio letterario, una riproposizione narrativa di un topos già percorso, con lo scopo di mostrarne l’indole sempreverde! Eco stesso, credo, se ne sarebbe compiaciuto. Il problema è che tutta questa sovrapposizione subisce, però, una sceneggiatura alla Codice da Vinci, dove tutto ciò che è istituzionalmente religioso appare non solo come antitetico ma, nella visione allucinata del romanzo, anche esasperato oltre ogni possibilità di verosimiglianza. Ma chi può ribattere, in effetti, a tutto ciò? Chi può costringere un autore a non immaginare, magari come possibili strumenti comunicativi, come artifici linguistici, scenari onirici al di là di ogni possibile contatto con la realtà? Per quanto a noi sembri che un cattivo, per essere veramente tale ed assolvere al suo ruolo letterario, debba essere il più verosimile possibile, non ce la sentiamo di attaccare quel diritto alla fantasia che, di fatto, ha nella letteratura il suo spazio proprio di sopravvivenza.
Dan Brown si era impegnato a far sembrare tutto il più reale possibile, ed Eco c’era proprio riuscito! Ma la sintesi alchemica tra questi autori così infinitamente distanti, peraltro infarcita da episodi che starebbero benissimo nell’universo no sense del primo Benni, e da barzellette che ogni tanto fanno capolino tra le pagine (ma che abbiamo già sentito raccontare mille volte), produce infine un prodotto che, sebbene riesca a mantenere un suo baricentro che altro non è se non la storia in quanto tale, lascia alquanto perplessi.
Le blatte cambiano la vita?
Anche lì, per esempio, dove si sarebbe potuta registrare una possibile crescita dei personaggi, questi appaiono piuttosto statici, come se fossero così già fin da piccoli, con poche differenze sostanziali. Ben poco importa che ad un certo punto Giulia abbandoni i voti religiosi (lo fa con una tale facilità che sembra averli abbandonati già prima ancora di averli contratti), o che Fabio diventi coraggioso (fino a che punto è una sua scelta? Ci s’è trovato!), tanto per fare due esempi. Insomma, non serve a farli crescere. L’unica vera esperienza nuova che si trovano a vivere è quella fisica, ma è talmente scontata dal punto di vista letterario (l’uomo e la donna del libro alla fine si innamorano e si accoppiano, come gli animali dell’isola) che le toglie l’unica credibilità possibile.
Forse cresce più di tutti Caterina, che muore – fortunatamente – prima degli eventi.
Poi ci sarebbero le blatte sulla copertina, sicuramente una scelta stilistica forte ed altamente simbolica, ma non so fino a che punto rendano più appetibile il libro. Forse un monito a coloro che pensassero di poter essere francescanisti (francescani è troppo cattolico) senza partire dal minimum; e certamente un richiamo narrativo al primo evento rivelativo di Seb. Si direbbe che gli scarafaggi, in un modo o nell’altro, ti cambino la vita.
Il romanzo, in fin dei conti, aggiunge la sua interpretazione alla lunga lista di descrizioni post-francescane (come post-apocalittiche) presenti su un’infinità di altri testi, che producono ogni sorta di rilettura possibile (dalla new age al mistico alienofilo, dagli anarchismi extra-ecclesiali ai radicalismi vegan, e chi più ne ha più ne metta; tanto Giovanni di Bernardone è nudo, e ciascuno lo veste come gli pare) sulla persona del Poverello d’Assisi, il quale – saggiamente – altro non scrisse se non un Cantico ed una Regola, quasi a ricordarci che l’uno non può fare a meno dell’altra.
Intelligente uso del lessico e… scopo benefico
Peraltro, il romanzo di Daniele Nadir è divertente e strappa buone risate, e certi suoi adagi sono degni di nota. Il libro si fa leggere fino alla fine, tutto sommato senza grandi rimpianti da parte di chi l’ha comprato. L’uso del lessico è intelligente e gioca moltissimo con l’inusitato accostamento di sostantivi e aggettivi che creano spazi semantici inesplorati, perfettamente coerenti con la natura fantasmagorica della narrazione. Pongo (che non è un presente indicativo ma il nome d’un cagnolino) merita, da solo, che si legga il libro per scoprire quanto simpaticamente è innestato all’interno dello scorrere – anche emotivo – della storia.
E soprattutto, e questo merito supera ogni possibile sgambetto messo lì da censori e recensori cattivi: i proventi della vendita del libro vanno tutti all’associazione Animal Equality. Per la serie, salviamo il lupo! E non soltanto quello di Gubbio.
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