Dall’idea iniziale di un libro sull’arte della meditazione a un testo autobiografico, crudo e impietoso. Ecco “Yoga” di Emmanuel Carrère, racconto irrequieto e discontinuo, specchio profondo in cui il lettore si riflette; la struttura si fa superba metafora degli stessi alti e bassi di cui è vittima l’autore, che confessa di soffrire di una forma di bipolarismo diagnosticatagli in tarda età
ConYoga (312 pagine, 20 euro) Emmanuel Carrère si era prefissato di realizzare un libricino arguto e accattivante sull’arte della meditazione che l’autore francese pratica da oltre trent’anni. Ne è venuto fuori un libro portentoso, di tutt’altra caratura, autobiografico come sempre, ma anche crudo e impietoso. In questa sua ultima opera, in Italia pubblicata ancora da Adelphi (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala), Carrère ha provato a raccontare il suo disagio mentale, una forma di bipolarismo diagnosticatogli in tarda età che ne ha compromesso la felicità. Già, perché è facile, quasi ovvio, pensare che un uomo di successo come Carrère abbia tutto per essere felice. Lo dice lui stesso ad un certo punto. Eppure per lunghi tratti della sua esistenza ha combattuto con la depressione, costretto perfino a ricorrere all’elettroshock nel tentativo di superare i momenti più bui. La meditazione per Carrère non è stata altro che uno strumento con cui andare alla ricerca del proprio equilibrio, una ricerca costante, per nulla agevole e non sempre efficace.
La mia autobiografia psichiatrica e il mio saggio sullo yoga erano lo stesso libro. Perché la patologia di cui soffro è la versione squinternata, parodistica, terrificante della grande legge dell’alternanza degli opposti di cui ho sinceramente celebrato l’armonia.
L’insaziabile fame della testa
Alla fine ad emergere dai fondali del racconto è sempre lui, l’egocentrico, narcisista e ammaliante Carrère. Ma stavolta è un Carrère diverso, che trova il coraggio di mettersi a nudo, un Carrère che «ha dentro due persone che si fanno la guerra» e sente il bisogno di raccontarlo. Anche Yoga, come molti dei suoi libri, è un tuffo nel proprio abisso, uno sguardo sul proprio dramma esistenziale che, pur non potendo essere obiettivo e distaccato, appare quanto mai lucido. La nostra è l’era dell’insoddisfazione: niente ci basta e niente ci sazia. La fame che ci affligge non viene dallo stomaco come per i nostri avi ancestrali, ma dalla testa. Ed è una fame insaziabile che nei casi più estremi rischia di portarci fuori binario.
Lo yoga tende all’unità, e io sono troppo diviso per raggiungerla.
Racconto irrequieto e discontinuo
La forza di Carrère sta nella sua prosa ammaliante: il racconto risulta irrequieto e discontinuo, come lo è – per forza di cose – l’umore di una persona che soffre di bipolarismo. E pagina dopo pagina, la struttura del libro si fa superba metafora degli stessi alti e bassi di cui è vittima il suo autore. In Yoga si percepisce tutta l’instabilità di Carrère, quel senso latente di inadeguatezza, la sofferenza, la voglia di essere un uomo migliore, capace di amare di più e meglio le persone a lui care. Invece, spesso è fonte di sofferenza. Carrère ritroverà la propria pace interiore in una piccola isola del Mediterraneo, tra un nugolo di giovani rifugiati, tra gli ultimi, tra chi ha perso tutto e non ha più nulla per cui lottare, se non la difesa della propria vita.
La mente fugge sempre. Fugge dal presente, fugge dalla realtà – che poi sono la stessa cosa, dato che solo il presente è reale.
Parlare di noi, parlando di sé
Probabilmente Yoga non ha la vivacità narrativa de L’avversario o quella trascinante forza emotiva di Vite che non sono la mia, e forse per questo motivo non lo consiglierei a chi vuole approcciarsi per la prima volta a Carrère. Ma risulta comunque assai coinvolgente, perché la qualità migliore di Carrère resta sempre quella di riuscire a parlare di tutti noi, parlando quasi esclusivamente di sé. Una sorta di specchio profondo e a tratti disturbante, in cui il lettore finisce sempre per riflettersi.
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