Dar voce a chi nessuno ascolta, si proponeva lo scrittore scozzese William McIlvanney, e il suo “Docherty” è un romanzo sociale che ricorda i grandi titoli del naturalismo francese, il ritratto di una famiglia di minatori – con riferimenti autobiografici – attraverso cui si parla dell’intera Scozia. Un libro che si segnala per la scrittura asciutta, il linguaggio poetico nella parte narrativa e vivido e dirompente nei dialoghi
Leggere e ascoltare storie è o dovrebbe essere un immedesimarsi nella vita, nell’ambientazione nella quale si svolge la storia che ci viene raccontata (o che stiamo leggendo), in vite che non sono le nostre, parafrasando un famoso titolo di Carrère. Edito da Paginauno, Docherty (419 pagine, 25 euro) di William McIlvanney, suo terzo romanzo che gli è valso la vittoria del prestigioso premio Whitbread Award for Fiction, raggiunge lo scopo. Si impara a volergli bene a questa famiglia di minatori scozzesi, i Docherty appunto, una famiglia della quale conosciamo i componenti attraverso tre generazioni a partire da inizio Novecento fino al primo dopoguerra in questo romanzo che lo scrittore scozzese colloca appunto in una tutta sua personale visione da “secolo breve”, dal 1903 fino al 1926, pochi anni dopo la fine del primo conflitto mondiale e anno dell’epico sciopero dei minatori. McIlvanney stesso è figlio di minatori e il romanzo del 1975 è ambientato nell’immaginaria città di Graithnock «una città industriale tenuta in ostaggio dai terreni agricoli», calco della città natale di McIlvanney, quella Kilmarnock città mineraria della Scozia orientale non lontana da Glasgow. I riferimenti autobiografici sono molti in questo romanzo corale dello scrittore e editorialista scozzese scomparso nel 2015, sostenitore dell’indipendenza della Scozia, cresciuto in una famiglia di minatori, il quale ha potuto studiare grazie alle borse di studio stanziate per i figli delle famiglie proletarie, diventando così insegnante e autore conosciutissimo in patria.
Dalla parte degli ultimi
É facile interessarsi alle sorti dei personaggi del romanzo e parteggiare per loro, la famiglia Docherty, nella quale spicca la figura del capofamiglia Tam, che ha ereditato da suo padre il lavoro in una miniera di carbone, un uomo e un padre consapevole che si può vedere la verità solo quando si sta sul fondo, dalla parte degli ultimi, il quale si mantiene fermo ai suoi ideali e alla sua integrità morale, cercando di farlo anche quando si manifestano i segnali di una famiglia che si sta disgregando. Esemplificativo è il rimprovero di Tam al figlio Angus quando capirà che sta diventando una sorta di imprenditore minerario. Dirà Tam:
Camminiamo lungo una linea sottile, io so quanto è sottile. Ci ho camminato sopra tutta la mia vita. Noi e la gente come noi non hanno quasi niente in questo mondo, tutto quello che filtra fino a noi è merda, da sempre, viviamo nelle fogne della comodità degli altri, l’unica cosa che possediamo è noi stessi. Ecco perché non devi vendere mai i tuoi compagni.
Di Tam Docherty, protagonista principale del romanzo, McIlvanney rende un appassionato e vivido ritratto, quello di un uomo che «avvertiva l’aspetto grottesco dei propri sforzi, di imporsi sulle forze contro le quali lottava, l’irrilevanza dei contrasti con gli amministratori delle miniere, l’assurdità di una famiglia in cui c’erano due religioni. Possedeva le percezioni che gli permettevano di sentire il dolore ma non le parole per sistemare le cose. Gli era consentito solo di sopportare»
La guerra, il pub, la fuliggine
La minima epopea dei Docherty, del padre Tam, della moglie Jenny, figura dalla grande sensibilità e forza interiore e dei loro quattro figli, Mick, Angus, Kathleen e il minore Conn, si dipana sul filo dei ricordi di piccoli grandi eventi quali quelli di una veglia funebre, un matrimonio, il fine settimana dell’intera famiglia a una fiera in un paese vicino, una notte di pesca di frodo ai salmoni, tra missioni evangelizzatrici di preti fanatici, risse, il duro irrompere della guerra (il primo conflitto mondiale nel 1914 con Mick che si arruolerà), «una guerra disonorevole» dirà Tam aggiungendo «una guerra di capitalisti, non c’è posto lì per un lavoratore», una guerra dalla quale Mick tornerà per il colpo di un mortaio amputato di un braccio, e ancora il racconto di serate al pub con l’odore legnoso di un whisky, la fuliggine delle miniere di carbone e le strade in acciottolato bagnate dalla pioggia in una città di provincia della Scozia, in particolare quella High Street che è il piccolo grande palcoscenico del romanzo, quel “Parlamento senza poteri”, una strada al cui angolo si riuniscono i suoi abitanti fra cui gli stessi compagni di lavoro di Tam che arrivati alla sera non trovano niente di meglio che ubriacarsi, un piccolo universo mondo fotografato con empatia e realismo dalla penna di McIlvanney nel primo quarto dello scorso “secolo breve”.
Lotte operaie e identità “scottish”
La vita in seno alla famiglia Docherty costituisce l’espediente tramite il quale l’autore riesce a parlare della realtà storica e sociale della sua amata Scozia, perché Docherty è anche un importante documento storico sulle lotte operaie e il racconto di un cambiamento epocale tra un passato che muore e un futuro che si impone con la forza del potere padronale, nel quale non possono non riecheggiare i riferimenti alla storia di molti anni dopo, quelli anni ’80 nei quali il governo di Margaret Thatcher provvederà a smantellare colpo su colpo i diritti dei lavoratori. Allo stesso tempo il romanzo costituisce la difesa dell’identità linguistica, sociale, politica, storica e culturale della Scozia, con riferimenti alla sua storia più o meno recente come il citato tra le righe sciopero dei minatori dello Ayshire (negli stessi luoghi del romanzo) del 1887, divenuto leggendario per essere stato tramandato nella memoria oralmente vista la perdita della documentazione al proposito, e una più sottile rappresentazione di un conflitto di identità storica, culturale e politica tra Scozia e Inghilterra, a partire dall’unione forzata delle due corone del 1707.
I contrasti sono presenti anche all’interno dei Docherty, religiosi, con la moglie di Tam, Jenny, lei protestante, lui di origine cattolica e irlandese e generazionali, con l’irrequieto Angus che seguirà le orme del padre andando a lavorare in miniera ma diventando una specie di imprenditore minerario tradendo la sua stessa origine, testimoniando il disgregarsi di una famiglia, in un modo quasi inerziale, con le divergenze tra padre e il figlio e tra gli stessi fratelli.
Quattro figli e catene
La scrittura di McIlvanney è limpida, asciutta, un linguaggio poetico nella parte narrativa e vivido e dirompente nei dialoghi nei quali predomina il parlato scots. La traduzione ha anche il merito di riuscire a evidenziare gli slanci lirici ed evocativi che fanno di Docherty un romanzo da assaporare parola per parola: «l’acqua era così oleosa che il sole ci si rosolava come un arrosto al forno», «Ma dimenticate a causa del buio, erano rimaste delle chiazze di sangue. Erano evidenti, ora, ed erano diverse, grosse e scure, alcune distanti più di un metro l’una dall’altra. Come se un gigante tossendo, avesse sputato sangue», «La miniera era qualcosa di separato, un’entità autonoma. Tutto quello che accadeva in superficie era solo punteggiatura», «C’era una luna luminosa – il cadavere della luce diurna», «Tornarono a cercare camicie e giacche. Vagando e incespicando qui e là nel campo, si stupirono di quanto lontano dai loro vestiti li avesse trascinati il loro pazzo pellegrinaggio che mostrava loro le crepe del suo totale e opprimente fallimento»(quest’ultimo brano che è la conclusione dell’episodio che vede fronteggiarsi a suon di pugni nell’amaro ma commovente finale i due fratelli Conn e Angus in una loro resa dei conti familiare). Talvolta il tono si fa intimistico come nelle lettere di Mick dal fronte o quando Tam ascolta incantato il figlio Conn mentre legge un brano di Ralph Waldo Emerson, riponendo in lui le tante speranze per un futuro migliore da quello dato a lui in sorte, fuggendo da quel sentimento di impotenza nel non poter cambiare un destino ineluttabile, la consapevolezza di «aver generato quattro figli e l’unica cosa che era riuscito a dare a ciascuno, era la loro personale catena», la triste profezia di Tam che troverà tragica evidenza nel finale.
Contro il capitalismo
Nella bella postfazione al volume il traduttore Carmine Mezzacappa ci lascia un ritratto intimo e appassionato dell’amico e intellettuale McIlvanney che nei suoi romanzi dirà avere sempre voluto “dare voce a color che nessuno ascolta”, portando avanti nei suoi scritti le istanze dei più deboli, delle classi disagiate, rivendicando la loro voglia di giustizia sociale, per un salario giusto, per condizioni di lavoro dignitose, cose che ci riguardano da vicino in ogni epoca, un implicito atto di accusa verso il capitalismo che sembra volerci dire: dove andremo a finire se non ci prenderemo cura gli uni degli altri? Istanze che traspaiono in filigrana anche nelle più recenti pubblicazioni di Feltrinelli della serie di romanzi polizieschi (etichetta che McIlvanney non ha mai condiviso) legati alla figura dell’ispettore Laidlaw, e ancor più nei suoi romanzi non di genere quali Big Man, dal quale è stata fatta una riduzione cinematografica nel 1990 con regia di David Leland e musiche di Ennio Morricone, e Fornace, ambedue i titoli editi da Giovanni Tranchida (primo editore italiano di McIlvanney). Tali istanze emergono ancor più chiaramente in Docherty volume meritoriamente riedito da Paginauno quest’anno, un romanzo sociale che ricorda i grandi romanzi del naturalismo francese o più semplicemente la storia drammatica, commovente e poetica di una famiglia: i Docherty.
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